Uccisero Nusrat, in 16 condannati alla pena capitale
Bangladesh La 19enne bruciata viva per aver denunciato il preside per molestie. Dopo l'omicidio tante le manifestazioni in un paese in cui migliaia di donne ogni anno subiscono abusi e violenze
Bangladesh La 19enne bruciata viva per aver denunciato il preside per molestie. Dopo l'omicidio tante le manifestazioni in un paese in cui migliaia di donne ogni anno subiscono abusi e violenze
Nel marzo scorso Nusrat Jahan Rafi, studentessa di una madrasa a Feni in Bangladesh, denuncia il suo preside alla polizia: un esponente religioso che la toccava in continuazione. Il 6 aprile viene attirata sul tetto della scuola e circondata da figure coperte con un velo integrale che le chiedono di ritrattare e che, al suo rifiuto, le danno fuoco.
Nusrat riesce a scappare e con il corpo quasi completamento bruciato arriva in ospedale dove morirà cinque giorni dopo. Fa in tempo però a far registrare tutta la vicenda al telefono del fratello.
Ieri il Tribunale per la prevenzione della repressione di donne e bambini di Feni ha condannato a morte il preside Siraj Ud Doula (secondo la polizia ha ordinato l’omicidio dalla prigione dove si trovava per sospette molestie), due insegnanti e diversi alunni della classe di Nusrat tra cui due donne, una delle quali ha partorito in prigione.
Due degli imputati condannati, Ruhul Amin e Maksud Alam, sono leader locali del partito al potere, la Lega Awami. In totale 16 persone che, se non saranno salvate dall’appello, penderanno a breve dalla forca.
È una punizione esemplare con processo esemplare a tempo di record che registra la soddisfazione del procuratore generale e dei ministri del governo Awami: arresti immediati e un dibattimento iniziato il 27 giugno con oltre 80 testimoni.
Il 30 settembre il tribunale fissava per ieri la sentenza con una maratona inusuale di soli sette mesi dalla morte di Nusrat. Una brutta storia di vendetta personale contro una giovane ragazza colpevole solo del suo coraggio e che finisce con una vendetta di Stato.
Gli agenti della polizia locale, che avrebbero collaborato con i condannati a diffondere false informazioni su un ipotetico suicidio della 19enne Nusrat, non sono però stato processati. Per il procuratore generale si tratta comunque di una sentenza epocale, una «pietra miliare» della giustizia.
La vicenda aveva scioccato l’intero Bangladesh, un Paese dove la violenza sulle donne è pane quotidiano ma che la storia di Nusrat ha fatto emergere con tutto un contorno di efferatezze, intimidazioni, ipocrisia religiosa e connivenze. Manifestazioni e proteste hanno seguito il caso fin dall’inizio e Nusrat è diventata il simbolo delle migliaia di donne sottoposte a violenze, molestie e umiliazioni: l’80%, dice Action Aid, nel solo settore dell’abbigliamento, principale voce dell’export.
Secondo il gruppo per i diritti delle donne Mahila Parishad, nei primi sei mesi del 2019, 26 donne sono state uccise dopo essere state aggredite sessualmente, 592 presumibilmente violentate e 113 hanno denunciato di aver subito violenza di gruppo.
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