Visioni

Nel tempo delle comunità marginali del Sol levante

Nel tempo delle comunità marginali del Sol levanteUuna scena da «Ainu Puri» di Takeshi Fukunaga

Cinema Al Tokyo Film Festival una selezione che scarta dalle kermesse europee, focus dedicato a Yu Irie. I coreani di 2a e 3a generazione, gli indigeni Ainu, un adattamento da Tsutsui

Pubblicato circa 2 ore faEdizione del 5 novembre 2024

Benché sia stato fondato nel 1985, il Tokyo International Film Festival ha faticato nel corso dei suoi quattro decenni di vita a trovare una collocazione nell’autunno caldo dei festival internazionali. In questi ultimi anni l’evento ha tuttavia saputo sviluppare e coltivare alcune interessanti prerogative, fra queste, quella di presentare e talvolta portare alla ribalta una discreta selezione di lavori provenienti dal Sol Levante, commerciali o meno, al di là dei nomi cari ai grandi festival come Venezia o Cannes.

«A Girl Name Ann» di Yu Irie

IN QUESTA EDIZIONE il regista in focus è Yu Irie, giapponese che debutta tra 2009 e il 2012 con tre film indipendenti, 8000 Miles 1 e 2, e Roadside Fugitive, tutti ambientati nella provincia giapponese di Saitama, lungometraggi che raccontano la storia di giovani che cercano di realizzare i loro sogni nel mondo della musica rap. Ancora ambientati nel mondo della musica, questa volta rock, sono Ringing in Their Ears del 2011 e Hibi Rock di tre anni successivo, mentre il debutto con produzioni dal budget più elevato cominciano ad arrivare una decina di anni fa. Prima con Joker Game, film di spionaggio ambientato in una Seconda guerra mondiale alternativa, poi con Memoirs of a Murderer, protagonista è qui Tatsuya Fujiwara, uno dei volti più popolari del piccolo e grande schermo giapponese – nel 2000 era uno dei protagonisti, ancora giovanissimo, di Battle Royale. L’ultimo lavoro di Irie è A Girl Name Ann, dove il ruolo principale è interpretato dall’attrice del momento Yumi Kawai, una storia tratta da fatti realmente accaduti che indaga il lato oscuro della società giapponese fra violenza tra le mura domestiche, povertà, prostituzione e pandemia.

Nippon Cinema Now è la sezione che più di tutte cerca di scoprire o presentare al grande pubblico, anche quello internazionale, alcuni dei film o dei nomi più interessanti provenienti dall’arcipelago. In questa edizione la selezione è decisamente più ridotta rispetto a quella vista in passato ed è un peccato, una conseguenza dello stato del cinema nipponico o probabilmente solo una decisione dettata da fattori logistici e di popolarità, molto più spazio rispetto ai decenni passati è stato dedicato, per esempio, all’animazione.
Fra i pochi titoli presentati vanno comunque sottolineati almeno due che sanno incrociare tematiche sentite anche se poco discusse nell’arcipelago, Ainu Puri e The Harbor Lights. Quest’ultimo è un film drammatico diretto da Mojiri Adachi – esordiente che da anni lavora però con la rete pubblica Nhk – ambientato nella città di Kobe, dove vive una famiglia di coreani di seconda e terza generazione, cioè nati e cresciuti nell’arcipelago ma che non hanno nazionalità giapponese. La famiglia si disfa, a causa di tensioni interne fra il padre, che non vuole abbandonare la nazionalità coreana, e il resto del nucleo famigliare, madre, figlio e due figlie di circa venti anni che decidono di scegliere quella giapponese (nel Sol Levante non è ammessa doppia nazionalità). La ricerca di un’identità che sulla carta non possiedono – non sono ufficialmente giapponesi, ma non parlano coreano e culturalmente non hanno legami con la penisola asiatica – finisce per colpire specialmente una delle ragazze, Akari, interpretata da Miu Tomita. Dopo aver lasciato casa, finisce in uno stato di depressione, in parte dovuto anche a questo vuoto identitario che non riesce a colmare e al suo difficile rapporto con il padre. La sua storia personale si lega a quella del quartiere portuale di Nagata, colpito dal terremoto del 1995 e luogo dove comunità provenienti da vari paesi asiatici abitano.

«Teki Cometh» di Daihachi

IL FILM pecca di alcune semplificazioni e spesso imbocca lo spettatore con frasi fatte su «legami», «famiglia» e «stare insieme», nonostante questo però, la prova attoriale di Tomita e la forza con cui porta sullo schermo le crisi della ragazza sono di notevole spessore e aprono una porta su una tematica, come si scriveva più sopra, raramente discussa.
Un altro lungometraggio presentato nella sezione Nippon Cinema Now è Ainu Puri, documentario attraverso il quale il regista Takeshi Fukunaga ha seguito per un paio d’anni la vita di un piccolo villaggio e di una famiglia in Hokkaido, nella zona rurale e selvaggia di Shiranuka. Si tratta di una comunità con origini Ainu, la popolazione indigena che abitava le zone settentrionali dell’arcipelago prima di venire usurpata e cacciata, e che cerca di mantenere vive le tradizioni e le usanze. Uno dei punti più riusciti del lavoro è la capacità di catturare in immagini la bellezza mozzafiato della natura selvaggia del luogo e di metterla in contatto con le pratiche ancestrali che le nuove generazioni di Ainu cercano di portare avanti.

Presentato in competizione uno dei titoli più originali visti finora al festival quest’anno, Teki Cometh, lungometraggio in bianco e nero tratto da un romanzo dello scrittore giapponese Yasutaka Tsutsui (La ragazza che saltava nel tempo, ed. Kappalab). Diretto da Daihachi Yoshida, il film segue la vita di un anziano professore di letteratura francese in pensione, vedovo e senza figli o famiglia, l’uomo ora abita da solo in un vecchia casa. Le sue giornate passano tra la preparazione della colazione e del pranzo, la lettura di libri e lo studio in vista di alcuni seminari che è ancora invitato a tenere. Le visite di una ex studentessa, alcuni incontri con vecchi amici e allievi e alcune misteriose email che declamano l’arrivo di un non precisato nemico dal nord sembrano alterare la realtà in cui l’uomo vive, esacerbata anche dal sentirsi prossimo alla morte.

I SUOI DESIDERI e le sue paure prendono forma materiale e si trasferiscono all’esterno, il sogno, la fantasia e la realtà di ogni giorno perdono i loro contorni fondendosi. È questo un tema caro a Tsutsui che spesso ritorna nei suoi libri e che Yoshida ha fatto proprio in maniera naturale, come ha dichiarato con intenzione semi seria lo stesso regista: «Il settanta percento di me è stato plasmato da Yasutaka Tsutsui». Il tono del film, così come i lavori dello scrittore giapponese, è a tratti comico e a tratti serio, con attimi surreali e momenti di puro terrore. La bravura di Daihachi e dei suoi collaboratori è quella di aver saputo tenere tutto insieme grazie all’ottima interpretazione di Kyozo Nagatsuka nel ruolo principale del professore, ma anche grazie ad una fotografia ed una messa in scena molto controllate.

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