Han Kang, ombre della Storia sepolte nella neve
Con i suoi racconti intessuti di echi ancestrali dalla tradizione buddista, Lafcadio Hearn trasmise agli occidentali l’idea che a quella cultura fosse congeniale una certa permeabilità del mondo terreno rispetto a quello dei trapassati. I kaidan – nome giapponese per una forma di narrazione diffusa in tutto il mondo buddista – si caratterizzano per la sorprendente labilità dei confini tra vita e morte, e per una raffigurazione degli spiriti oscillante fra lo spaventoso e l’augurale, ciò che sprigiona al tempo stesso la gelida impressione di trovarsi al cospetto di una breccia verso l’oltretomba, da cui possono affacciarsi tormentosi fantasmi, e, all’opposto, un sorprendente conforto, dato dalla vicinanza insperata ai cari perduti, e dal fatto che il loro ritorno si giustifica con la volontà di indicare al congiunto qualcosa che, pur essendo davanti ai suoi occhi, per qualche ragione gli sfugge.
Luci ambigue
Nel suo romanzo edito in Italia l’anno scorso, L’ora di greco (Adelphi), la coreana Han Kang aveva dedicato ampio spazio a suggestioni ispirate dall’incontro fra culture lontane, ritornando più volte, per esempio, su Borges e le sue conferenze dedicate al buddismo, che suscitano l’interesse della protagonista, appassionata lettrice di «voci esotiche» versate in argomenti a lei familiari. Forse Kang ascriverebbe alla stessa categoria anche l’opera di Hearn. Certo è che il suo ultimo libro è avvolto in una luce ambigua dalla quale sembrano affiorare alcuni elementi comuni alle storie dei fantasmi di matrice buddista: la coesistenza «naturale» di vivi e defunti (umani e animali) nello stesso spazio narrativo, il ruolo di guida verso una qualche rivelazione svolto dalle ombre, e quella duplice sensazione di gelo e tepore vissuta dai personaggi, reificata dalla scrittrice coreana nel continuo rimbalzo fra le evocazioni di paesaggi innevati, e improvvisate fonti generatrici di fuoco (fornelli da cucina, camini, fiammiferi).
Spetterà a una immagine, richiamata a metà di questo romanzo – Non dico addio (traduzione di Lia Iovenitti, Adelphi, pp. 263, € 20,00) –, offrire un presagio della vicenda «spettrale» che si ritroverà a esperire di lì a poco Gyeong-ha, la protagonista, laddove la donna indugia in una breve descrizione del modo in cui i pappagalli vedono il mondo: con un occhio possono guardare gli uomini che hanno accanto, e con l’altro osservare i movimenti delle loro ombre sul muro. Da lì in avanti il racconto cambierà bruscamente prospettiva, proiettando una luce diversa su tutto quanto si era letto in precedenza.
La prima parte di Non dico addio – tutto narrato in prima persona – segue Gyeong-ha nelle sue riflessioni quasi diaristiche, dalle quali si viene a sapere che nella sua vita privata si sono susseguiti bruschi commiati dai quali fatica a riprendersi. L’Io narrante assomiglia a quello di un alter ego di Han Kang, poiché Gyeong-ha è scrittrice, autrice di un romanzo nel quale ha restituito una versione letteraria del «massacro», ovvero della strage compiuta a Kwangju nel 1980 dai militari al potere allora in Corea del Sud – esattamente come ha fatto Han Kang con Atti umani.
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Han Kang, tra il corpo e il dolore, con grazia ossessivaFerita da una catena di abbandoni, Gyeong-ha trova conforto nella vecchia amica In-seon, che a sua volta è in un letto d’ospedale per le conseguenze di un grave incidente a una mano. Tocca a lei, impossibilitata a muoversi, consegnare Gyeong-ha alla sua quest: le chiede infatti, nonostante una feroce tormenta renda accidentato ogni percorso, di recarsi a casa sua, dove è avvenuto l’incidente, in un luogo campestre isolato e probabilmente sommerso dalla neve, per di più al centro di un’isola, Jeju. Lì troverà il suo pappagallo, che da giorni non mangia né beve.
La cronaca del viaggio di Gyeong-ha basterebbe già da sola a racchiudere un affascinante racconto, intriso di poesia, nel quale la donna combatte contro la fatica e l’onnipresente neve, per raggiungere la casa abbandonata da In-seon, nella speranza che il pappagallo abbia resistito. Così non è: dopo tutto quel che ha passato, Gyeong-ha scopre di essere arrivata tardi. Si stende sul letto dell’amica, come per riposare, e quando si risveglia qualcosa è cambiato. La casa silenziosa si presenta adesso abitata da presenze inattese, e familiari. In questa nuova condizione, Gyeong-ha prende ad affollare il testo di domande: si chiede se forse «un sogno acuminato si apra una breccia» dentro di lei, come già accaduto nei giorni precedenti. O se, invece, non si sia recata fin lì per lasciarsi morire: dubbio che il racconto non vorrà sciogliere fino alla fine.
La narrazione, almeno in italiano, oscilla tra presente e passato prossimo: è il modo in cui raccontiamo i sogni. Eppure il sogno, o l’incubo, dal quale la protagonista non sembra potersi ridestare, prende via via una consistenza definita, materica, quasi documentale.
Un altro scopo
L’ombra che si è presentata accanto a Gyeong-ha indica un nuovo possibile scopo per il viaggio intrapreso fin laggiù: insieme a lei ripesca da vecchie scatole fogli, fotografie, lettere. Davanti agli occhi della narratrice scorrono le immagini dei molti massacri che si sono perpetrati a Jeju e non solo, nel corso del Novecento, durante la guerra civile, l’intervento americano, la caccia indiscriminata ai «comunisti» in nome della quale intere famiglie, compresi i bambini, sono state sterminate.
Gyeong-ha scopre, o riscopre l’incubo collettivo della Storia, mentre la sua bizzarra quest assume la forma di un cammino di conoscenza. Sentiero impervio, solitario, al quale forse non può sopravvivere. O forse sì: l’ultima parola, nella contesa simbolica fra ghiaccio e fuoco, è per il fuoco: un fiammifero, acceso e tenuto in alto da Gyeong-ha, circondata dalle montagne innevate.
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