Chushingishi Komyo Kurabe - Confronto fra conservatori leali e fedeli samurai
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Cultura

Manuali e prontuari per l’arte del samurai

Giappone Un’etica guerriera antica, risalente al Medioevo e arrivata fino al Novecento. I volumi sono raccolti in «Classici d’Oriente», la nuova collana di Bur dedicata alla cultura asiatica
Pubblicato circa 7 ore faEdizione del 19 ottobre 2024

Il 12 ottobre del 1960, durante un dibattito televisivo, il segretario del partito socialista giapponese Asanuma Inejiro viene assassinato dal diciassettenne ultranazionalista Yamaguchi Otoya, che gli sferra dei fendenti con una spada corta detta wakizashi, tipica dei samurai. Yamaguchi diverrà poi un eroe per l’estrema destra giapponese.

Dieci anni più tardi, il 25 novembre del 1970, lo scrittore Mishima Yukio insieme a quattro membri della Tate-no-kai, la «società degli scudi» che lui stesso aveva creato, occupa l’ufficio del comandante Mashita delle Forze di autodifesa, tiene un discorso dal balcone contro lo svilimento dei valori classici della nazione giapponese e, sempre in favore di teleobiettivo, commette seppuku, il suicidio rituale, con la spada tradizionale. Sulla testa porta una fascia su cui aveva scritto «Rinascere sette volte per servire il paese», riprendendo le ultime parole del samurai Kusunoki Masasue, morto nel XIV secolo.

DUE CASI DI CRONACA del Novecento che affondano le radici nella filosofia e nell’estetica della bella morte dei samurai, i guerrieri giapponesi. Roba che dovrebbe essere consegnata alla polvere della storia, eppure, in un’impennata di visibilità, quest’anno la serie Shogun sulle lotte di potere tra i signori della guerra nel XVII secolo si è accaparrata diciotto statuette ai Primetime Emmy Awards. Com’è possibile che quest’epica guerresca del medioevo giapponese sia ancora così rilevante?

PER COMPRENDERLO possiamo tuffarci in un piccolo canone letterario a cui si sono da poco aggiunti tre volumi pubblicati da Rizzoli nella collana «Classici d’Oriente». Lo Hagakure di Yamamoto Tsunetomo (a cura di Ornella Civardi, pp. 268, euro 12), per esempio, era considerato in Giappone «la bibbia dei samurai». L’universalità dei suoi insegnamenti mescolata alla replicabilità mnemonica dei vari passaggi sono gli aspetti che ne hanno garantito la sopravvivenza nei secoli, fino a Mishima e al giovane Yamaguchi. D’altro canto, il libro primo si apre così: «La Via del samurai è la morte». Un precetto contronatura che spinge l’uomo ad abbandonare l’istinto dell’autoconservazione e a vivere «come se fosse già morto».

È PROPRIO QUESTA la molla che porta il samurai a gettarsi nell’azione inebriato dal proprio eroismo, nell’esaltazione che Tsunetomo non cessa di celebrare. Quello stesso Tsunetomo che però cresce lontano dalle scintille guerresche, seduto sul tatami col pennello in mano invece che con una spada katana. Non ne può fare a meno: figlio di prodi samurai, è uomo di Edo, dove lo corte dello shogun nel XVII secolo tenta di disciplinare i rustici e maneschi samurai di provincia per addestrarli alla vita di palazzo. Tsunetomo vuole cristallizzare la filosofia guerresca dei suoi padri in un libro che si rivelerà imprescindibile lettura per tutti i guerrieri che, in tempo di pace, nasceranno dopo di lui.

Più fortunato (per modo di dire) di Tsunetomo è stato Miyamoto Musashi, leggendario samurai che è vissuto nell’ultimo periodo in cui le grandi guerre scuotevano il Giappone: si dice che il 21 ottobre 1600 si trovasse a Sekigahara, dove le truppe dei Tokugawa si facevano strada, spada in mano, nella storia del paese. Musashi entra nel mito come creatore della tecnica di lotta con due spade e la racconta nel suo Libro dei cinque anelli (a cura di Ornella Civardi, pp. 186, euro 11). Le storie che si raccontano su di lui sono numerose anche se non sempre veritiere: passa per essere un samurai ribelle e anticonformista, ma in realtà cercò tutta la vita di piazzarsi come vassallo e istruttore di qualche signorotto feudale (i daimyo). Sembra che anche il fatto che non si lavasse sia solo una diceria. Nel suo Libro, Musashi accusa le nuove leve formatesi all’arte della spada di essere «fiori senza frutto», samurai senza efficacia, buoni solo a muovere l’arma come gesto estetico, lontano dal furore della guerra.

UN PENSIERO PROFETICO che sarà poi Tsunetomo a raccogliere nel suo Hagakure. È sempre la via del guerriero che sta a cuore a Musashi, l’addestramento iniziatico che si compie soltanto con la trasmissione da maestro ad allievo. La rivelazione delle tecniche dei colpi «supremi» arriva gradualmente, quando il samurai sarà pronto: «per suonare la campana, bisogna essere arrivati dentro al tempio». La tecnica prevede di portare due spade, una lunga detta katana, e la spada corta detta wakizashi, le stesse che verranno impiegate per gli atti estremi di Yamaguchi e Mishima. Da allora, portare due spada sarà il segnale di riconoscimento del samurai.

Non sappiamo come Musashi avrebbe potuto invece commentare La misteriosa tecnica della vecchia gatta, un discorso sulle arti marziali compilato da Issai Chozanshi (a cura di Tea Pecunia e tradotto da Yoko Dozaki, pp. 182, euro 12,50), samurai del feudo di Sekiyado. La sua è una brillante sincresi di shinto, buddhismo zen, confucianesimo e taoismo che confluiscono nelle arti di combattimento con la spada. Qui è una vecchia gatta, famosa cacciatrice di topi, che insegna allo spadaccino Shoken l’arte delle guerra: è il mushin, lo stato di non-mente, l’agire spontaneo. La caccia ai topi è come la lotta tra gli uomini, un duello di spirito prima ancora che di corpi. Sarà lei a dare, forse, l’insegnamento più duraturo: la Via della spada non è soltanto la sconfitta dell’avversario. «È l’arte di comprendere in un momento critico la questione della vita e della morte. Questo è quanto un samurai dovrebbe sempre tenere a mente».

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