Il figlio di Aung San Suu Kyi: «Solo bugie su mia madre»
Myanmar Formalmente la leader democratica birmana, imprigionata dopo il golpe militare del 2021, è agli arresti domiciliari. In realtà non ha mai lasciato la sua cella. Lo conferma al «manifesto» uno dei suoi due figli, Kim Aris: «Alla giunta non piace che la gente sappia cosa accade veramente. Mentono per confondere. Se si pensa che mia madre sia ai domiciliari diminuisce l’attenzione sulle sue reali condizioni»
Myanmar Formalmente la leader democratica birmana, imprigionata dopo il golpe militare del 2021, è agli arresti domiciliari. In realtà non ha mai lasciato la sua cella. Lo conferma al «manifesto» uno dei suoi due figli, Kim Aris: «Alla giunta non piace che la gente sappia cosa accade veramente. Mentono per confondere. Se si pensa che mia madre sia ai domiciliari diminuisce l’attenzione sulle sue reali condizioni»
La smentita è diretta, senza mezzi termini e viene da una fonte autorevole. «Mia madre non è mai stata agli arresti domiciliari. È una bugia. La gente lo deve sapere». A spiegarlo è Kim Aris, uno dei due figli di Aung San Suu Kyi, la leader democratica birmana imprigionata per l’ennesima volta subito dopo il golpe del febbraio 2021 che ha rovesciato il suo governo. Invitato in Italia dall’Istituto Cervi di Gattatico e dall’Associazione di amicizia Italia-Birmania, Kim ha lanciato, nel quadro della settimana di incontri organizzata dalla Casa della pace di Parma, un appello perché in Myanmar finisca la guerra civile iniziata dopo il colpo di Stato. Una guerra fuori dai riflettori ma che ha già pagato un tributo di oltre 50mila vittime, con bombardamenti che ogni giorno martellano un territorio dove però la Resistenza guadagna terreno.
LO ABBIAMO INCONTRATO e gli abbiamo chiesto di una notizia uscita in due distinti momenti secondo cui la Nobel per la pace era stata trasferita in un’abitazione civile della capitale. Un gesto di umanità ma che secondo Kim nasconde solo la brutalità del regime. «Mia madre è in prigione per quanto ne so. E l’ultima persona ad averla vista davvero e ad essere in grado di riferire dove si trova, è il suo consulente economico Sean Turnell (nella stessa prigione di Suu Kyi ha passato 650 giorni prima di essere liberato, ndr). Le condizioni che ha descritto – prosegue Kim – sono terribili: celle infestate da topi e senza aria condizionata… A un certo punto a mia madre le è stata offerta, ma lei ha detto che non poteva accettare una condizione diversa da quella di altri prigionieri. Ha rifiutato».
Menzogne dunque, che hanno resistito sino a oggi. «Alla giunta non piace che la gente sappia cosa realmente sta accadendo. Mentono per confondere, per apparire meglio di ciò che sono. E se la gente pensa che mia madre sia agli arresti domiciliari diminuisce ovviamente l’attenzione sulle sue reali condizioni. È chiaro che spero possa riavere la sua libertà, ma finora non ci sono indicazioni che sarà davvero trasferita ai domiciliari o che verrà liberata».
Kim parla anche della visita dal papa, il 2 ottobre dell’anno scorso, prima del viaggio di Francesco in Asia. Una visita di cui si è saputo solo in settembre dopo che la Civiltà cattolica ha pubblicato le conversazioni del pontefice con i gesuiti indonesiani in cui ricordava la visita di Kim e il fatto di «aver offerto il Vaticano per accogliere» Aung San Suu Kyi. Un messaggio politico forte durante una visita, rimasta segreta per un anno, «in compagnia – conferma Kim – della senatrice Albertina Soliani», che quell’incontro ricorda bene.
«Il Papa – dice la vicepresidente nazionale dell’Anpi a capo dell’Istituto Cervi – ha sempre avuto nel cuore il Myanmar che ricorda sempre anche quando parla di Gaza o dell’Ucraina. In proposito il papa ha lanciato un appello per la liberazione di Suu Kyi e mi sentirei di dire che chi ha responsabilità politiche capisca dunque a chi è rivolto. Ci ho visto una apertura della Santa Sede a una possibile mediazione in vista di una riconciliazione. E ci vedrei anche un gesto di apertura verso la Cina come se Pechino e il Vaticano potessero collaborare in questa direzione».
«Una mediazione di questo tipo – conclude Soliani – sarebbe utile per un processo che tenga contro di tutte le componenti: milizie etniche armate, governo clandestino, questioni spinose come il dossier rohingya. Naturalmente si tratta anche di negoziare coi militari, purché rinuncino, sedendosi a un tavolo, al loro ruolo di soggetto politico. Transizione difficile ma non impossibile verso un governo federale che includa tutte le componenti etniche e sociali e un esercito che raccolga tutti gli ex combattenti. Quanto al governo clandestino, noto come Nug, andrebbe riconosciuto».
«UNO DEI POCHI EFFETTI POSITIVI del golpe – aggiunge Kim – è che abbiamo visto come così tante persone si siano unite per resistere ai militari. Penso si possa lavorare sulla base di questa unità che è stata coltivata negli ultimi quattro anni, un vantaggio che può aiutare le persone a lavorare insieme meglio che in passato. Ho fiducia in un futuro democratico per la Birmania e penso sia realizzabile. È qualcosa che mio nonno (Aung San padre di Suu Kyi, ndr) cercava di incoraggiare quando era in vita ed è qualcosa per cui mia madre ha sempre combattuto».
Intanto, dalla recente riunione in Laos dell’Asean, l’associazione regionale del Sudest asiatico, è uscita una proposta tailandese per cercare di risolvere una crisi su cui il gruppo dei dieci non riesce a fare passi avanti. Il summit di Vientiane, dove era presente anche un alto funzionario civile birmano, ha quantomeno registrato la proposta di tenere in dicembre «colloqui informali» in Thailandia. Proposta però che corre il rischio di fare la fine di quella dell’anno scorso, quando un simile evento aveva visto la presa di distanze di Indonesia, Malaysia e Singapore e la bocciatura del Nug.
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