Biennale Corea, laboratori d’arte tra umano e non umano
Installazioni dalla Biennale di Gwangju
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Biennale Corea, laboratori d’arte tra umano e non umano

Reportage La vivace scena coreana contemporanea, con i due appuntamenti di Busan e Gwangju (con una intervista al curatore di quest'ultima)
Pubblicato circa 4 ore faEdizione del 12 ottobre 2024
Naima Morelli GWANGJU, BUSAN (COREA)

Non c’è niente come una biennale per fare il punto sul mondo dell’arte, per registrare moti che non sono solo artistici, ma anche le correnti di pensiero che animano la cultura e, al di là della nostra cultura, il nostro universo. In Asia sono due gli eventi che rappresentano questo genere di cartina tornasole, e sono entrambi in Corea. Il primo è nella città di Gwangju, ed è considerato a tutti gli effetti una sorta di Biennale di Venezia asiatica. Il secondo è a Busan, rassegna anche questa di lunga data.

Altra dicotomia coreana di inizio autunno è quella delle due fiere Kiaf e Frieze Seoul. Se la vecchia guardia si concentra soprattutto su artisti del paese, fornendo una panoramica rispetto alla scena locale, la nuova arrivata ha lanciato la Corea sul mercato internazionale, rendendo Seoul un centro nevralgico che, secondo alcuni, in futuro potrà strappare una fetta di mercato a Singapore o Hong Kong.

A livello economico infatti, la Corea del Sud sta vivendo un periodo estremamente florido, e Seoul si sta affermando come nuovo place to be dell’arte contemporanea. Giovane, cool e supportata dal governo, fa record di presenze e di vendite, soprattutto tra i millennials e Gen Z.

Inoltre, a livello popolare, l’arte contemporanea comincia a espandersi in ogni strato sociale, apprezzata come forma di intrattenimento da una popolazione sempre più colta. La coincidenza dell’inaugurazione di Biennale e fiere nello stesso momento dà luogo a un complesso meccanismo che coordina i quattro eventi per creare una piccola detonazione artistica, volta a scaraventare collezionisti, vip e giornalisti da un luogo all’altro.

Il titolo della Biennale di Gwangju è Pansori a Soundscape of the 21st Century e si riferisce a una forma musicale coreana del XVII secolo che simboleggia «la voce del popolo». Lungi dal trovarci immersi in cacofonie, attraversando le diverse sale della mostra principale, osserviamo la musica farsi metafora di questioni globali come il cambiamento climatico, la sovrappopolazione e la convivenza tra specie umane e non umane.

Nelle intenzioni del curatore c’è l’idea di esplorare il nostro rapporto con lo spazio nel contesto dell’Antropocene. Avventurandosi nelle quattro sezioni volute dal curatore Nicolas Bourriaud, la sensazione è quella di esplorare una Biennale di detriti. Che nemmeno prova a lusingare lo spettatore, né cerca di piacere. Nella maggior parte delle opere l’artista rimane una presenza laterale favorendo l’innesco di dinamiche, piuttosto che parteciparvi.

Si tratta di una Biennale dove l’elemento umano piano piano scompare per lasciare posto a una comunicazione interspecie, un dialogo intelligenza artificiale-pianta, insomma, un «mondo senza di noi», come direbbe Alan Weisnmann. In filigrana si leggono sottotracce d’emancipazione, come il femminismo, i diritti Lgbt+ e la decolonizzazione. Ma tutto ciò che è culturale rimane come una traccia evanescente. La relazione tra essere umano, natura e ambiente è tutta da ripensare.

La Biennale di Busan parte invece dal presupposto opposto: far emergere tutto ciò che è cultura, politica, sociale. Ovvero umanità. Guidata dal tema Seeing in the Dark (a cura di Vera Mey e Philippe Pirotte), questa edizione esplora la metafora della «visione nell’oscurità», facendo scendere in campo utopie sociali «pirata» e illuminazioni buddiste. Cercando di collegare narrazioni storiche alternative alla spiritualità contemporanea, in particolare rispetto al contesto asiatico.

La curatrice neozelandese Vera May e il belga Philippe Pirotte sono partiti da conversazioni con l’artista Nika Dubrovsky, vedova dell’antropologo anarchico David Graeber: «All’epoca stavamo leggendo il suo libro, pubblicato postumo nel 2023, intitolato Pirate Enlightenment, or the Real Libertalia – spiega May – Il libro racconta di come l’illuminismo non sia stato generato in seno all’Europa occidentale, ma piuttosto dalle sue periferie, per poi tornare nei centri culturali dell’epoca. Questa idea di ‘illuminazione,’ ovvero di conoscenza e trasparenza, è spesso associata alla sorveglianza, tema su cui siamo molto critici». Vedere al buio è dunque una sorta di allegoria, un ritorno a un rifugio primordiale: «Corrisponde al principio che l’esposizione ti lasci vulnerabile, e quindi forse è meglio restare nelle tenebre», aggiunge May.
La chiave di volta che introduce alla Biennale è la grande opera del monaco Song Chang, due dipinti alti dieci metri: Avalokiteshvara e Marry-The Truth Has Never Left My Side. Queste opere, create appositamente per la Biennale, accolgono i visitatori all’ingresso dello spazio espositivo. Un dipinto raffigura un Bodhisattva, mentre l’altro combina elementi multiculturali in maniera sincretica, con uno stile pittorico buddista.

Fa piacere vedere in mostra il lavoro di diversi artisti che non sono solitamente «materiale da Biennale», come i cambogiani Chov Theanly e i suoi dipinti di «gente del popolo», o anche Kanitha Tit e le sue sculture in acciaio.

Un’altra opera site-specific di grande impatto è quella dell’artista thailandese Pratchaya Phinthong. L’opera è composta dal video Today Will Take Care of Tomorrow , che fa riferimento alla poesia di Paul Malimba sulla storia del Laos e sulla capacità della natura di assorbire la violenza e lenire i traumi. «Non volevamo che un gruppo di artisti di una specifica parte del mondo prevalesse sull’altro, anche se il Sud est asiatico è molto visibile in mostra», nota Vera Mey. In quanto docente d’arte, il suo approccio curatoriale è più democratico ed equilibrato, in contrasto con la visione più marcatamente personale dell’arte di Bourriaud.

Tuttavia, c’è un elemento su cui entrambi gli approcci curatoriali si raccordano: dare spazio ad artisti che propongono soluzioni spirituali, in un mondo dove natura e tecnologia rappresentano due poli non del tutto inconciliabili.

Installazioni alla Biennale di Gwangju

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INTERVISTA

Il feng shui del detrito: esplorazione del «mondo senza di noi» tra suoni e intelligenze altre: conversazione con Nicolas Bourriaud, curatore

«Le fiere sinceramente non mi interessano», dice Nicolas Bourriaud con un colpo di ciuffo argentato, seduto nella sala stampa della Biennale di Gwangju, interrogato sulle fiere Frieze Seoul e Kiaf.
E come potrebbe essere altrimenti per un curatore la cui pratica è una diretta estensione del proprio pensiero, che da più di trent’anni sviluppa in pubblicazioni che hanno segnato la concezione dell’arte contemporanea del nostro tempo, da Estetica relazionale a Postculture, fino ai più recenti Exforma e Il radicante? Con questa 15/a edizione della Biennale, Bourriaud ha voluto continuare una conversazione sul detrito, lo scarto, e tutto ciò che viene escluso dalla società. Un discorso cominciato dalla nona Biennale di Taipei di 10 anni fa intitolata La grande accelerazione e focalizzata sull’era dell’antropocene.

Può parlarci della sua idea di fondo per la mostra?

Le mie idee vengono direttamente dagli studi degli artisti: vederle e identificarle è il mio lavoro. Negli ultimi anni, ho «registrato» il confronto degli artisti con un mondo non solo di oggetti, ma di soggetti. Penso che oggi stiano ridefinendo e ampliando l’estetica relazionale, estendendola anche al non umano, il che va oltre le preoccupazioni degli anni ’90 legate all’interazione. È una visione più ampia. C’è un riconoscimento del fatto che anche gli elementi non umani, come gli alberi che comunicano attraverso le radici, hanno una forma di intelligenza.

Questo approccio si riflette anche nella struttura della rassegna?

Assolutamente. Ho voluto creare una struttura dove il suono e le opere sono in una relazione quasi musicale tra di loro. È come comporre un’opera lirica: c’è una trama narrativa, ma lo spettatore è libero di seguirla o di concentrarsi sulle singole opere. Alcuni artisti che ho selezionato ho avuto modo di conoscerli, a volte semplicemente scartabellando tra vecchi cataloghi nelle bancarelle dell’usato, poi lavorarci nel corso degli anni. Ma ci sono anche diverse nuove produzioni.

In una mostra prevalentemente incentrata su installazioni e video, troviamo anche alcune opere pittoriche. Che valenza hanno in questo contesto?

Curare una Biennale è un po’ come fare del feng shui. Il punto è creare un’armonia nella spazio. Per me, la pittura rappresenta un focus all’interno della mostra, che contrasta con l’immersività di altre opere. È importante avere questi cambi di ritmo e di prospettiva per lo spettatore. I pittori figurativi offrono un momento di pausa e di riflessione, senza per questo essere in disaccordo con il resto della mostra. Fanno parte di un’ecologia più ampia, creando un’esperienza di visione dinamica.

Come si differenzia Gwangju da altre Biennali, per esempio da quella di Venezia?

Ci sarebbe molto da dire rispetto all’ultima Biennale di Venezia, ma è sufficiente sottolineare che a Gwangju ho proposto un’ipotesi, una presa di posizione su ciò che sta accadendo nell’arte di oggi. Non si tratta semplicemente di allineare una lista di artisti e opere negli spazi in maniera quasi museale. Credo che l’obiettivo principale di una Biennale sia quello di affermare valori estetici e proporre una visione di ciò che l’arte dovrebbe essere.

Questa visione si riflette anche nella scelta degli artisti, in particolare di quelli coreani?

Sì. Vi sono 12 artisti coreani su 72 totali, una percentuale significativa che riflette la forza della scena artistica asiatica. A livello globale credo che questo sia il momento della Corea. Il suo appeal che va dal cinema al K-pop riguarda anche un mercato dell’arte molto dinamico. È un contesto che ha influenzato la mia selezione. Ritengo che tutto ciò faccia parte di un processo più ampio di ribilanciamento dell’influenza culturale tra Europa e Asia. È un fenomeno che osserviamo ormai da tempo, che vede l’emergere di nuovi centri di produzione artistica. La Biennale di Gwangju riflette questo spostamento in atto degli equilibri.

Per concludere, quali sono i suoi prossimi progetti dopo questa Biennale?

Ho già in programma una mostra più storica sul tema dell’estetica relazionale, che si terrà al Maxxi di Roma nel 2025. Sarà un’esposizione che esplorerà le origini e l’evoluzione di questo concetto, dagli anni Novanta a oggi.

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