Cultura

Han Kang, tra il corpo e il dolore, con grazia ossessiva

Han Kang, tra il corpo e il dolore, con grazia ossessivaLa scrittrice sudcoreana Han Kang (foto Ansa), premio Nobel della letteratura 2024

Nobel letteratura L’avvicinamento circospetto all’indefinito, ai «mali oscuri» dell’anima, spesso attraverso il racconto dei sogni, è un motivo ricorrente nelle sue opere. Tra i più giovani a essere premiata dall'Accademia svedese, la prima coreana: «La vegetariana» è il suo libro più noto. Nel catalogo Adelphi quattro titoli: un quinto è in uscita a fine ottobre

Pubblicato circa un mese faEdizione del 11 ottobre 2024

Il dialogo con il proprio corpo, con il quale si intrattiene una relazione solo apparentemente intima, che all’improvviso rivela una perfetta estraneità. Le ferite della psiche, ricucibili attraverso il tentativo di esprimere l’Io con i mezzi della scrittura. Un lirismo discreto, misurato in immagini poetiche spiazzanti, enigmatiche, condotto da una voce dolente e indomita: sono tra gli elementi fondanti della narrativa della sudcoreana Han Kang – nota da noi soprattutto per La vegetariana (2007, Adelphi 2016) –, alla quale ieri l’Accademia di Svezia ha attribuito il premio Nobel per la letteratura: prima del suo paese a vincerlo, e raro caso in cui il riconoscimento supera i confini delle lingue parlate in occidente (negli ultimi trentacinque anni era toccato soltanto ad altri due scrittori, sempre dall’estremo oriente: il cinese Mo Yan, e il giapponese Oe Kenzaburo, mentre l’altro cinese premiato, Gao Xingjian, vive a Parigi e scrive da tempo in francese).

E proprio quella della difficoltà linguistica è una delle questioni affascinanti sollevate da questo Nobel: in inglese e francese sono disponibili rispettivamente quattro e cinque delle sue opere, in svedese (la prima lingua degli accademici di Stoccolma, che si presume in maggioranza non conoscano il coreano) tre. In italiano quattro, mentre un quinto è in uscita tra pochi giorni, da Adelphi come i precedenti. Dunque un premio attribuito a un’opera concentratissima (tutti testi brevi), e a un’autrice relativamente giovane (Kang non ha ancora compiuto 54 anni: nei centotrenta anni di storia del Nobel, soltanto una quindicina di persone lo hanno ricevuto quando erano più giovani di lei, ma quasi tutte agli albori. L’ultimo ad averlo avuto prima dei 53 anni è Brodskij, nel 1987). Con poco meno di venti titoli editi in Corea del Sud – tra narrativa, saggi e poesia –, si può dire che Han Kang sia una scrittrice che ci è in gran parte sconosciuta, e che aspettiamo di scoprire. Da quei quattro titoli emana una forza evocativa della quale, una volta interrotta la lettura, è difficile liberarsi. E questo si deve anche al velo di mistero che li avvolge, e che spesso invoglia a ritornare su pagine già lette come se contenessero un enigma passato davanti agli occhi troppo in fretta.

Dei testi usciti in Italia, quello che più di tutti lavora a tessere con il suo lettore una relazione ambigua è L’ora di greco, il romanzo più «letterario» di Kang, e il più sfuggente, incentrato su una serie, simbolica e concreta a un tempo, di questioni semantiche, che lavorano a costruire un ponte fragile, ma essenziale alla protagonista, per mettersi in cammino al di sopra dell’abisso nel quale la sua mente è sprofondata. La trama è infatti incentrata sulla convalescenza di una voce narrante che, qui come negli altri libri di Kang, deve affrontare un dolore capace di intrappolarla, fino impedirne la facoltà di parlare. Dolore che si sottrae innanzitutto alla sua definizione (l’avvicinamento circospetto all’indefinito, ai «mali oscuri» dell’anima, è il leitmotiv delle opere di Kang, il lavoro che esse si sono assegnate e che conducono con una certa, ossessiva grazia). La donna (coreana) trova la via di uscita nello studio di una lingua per lei aliena, la lingua di Platone, e attraverso di essa, e un incontro fortunato, sembrerà infine ritrovare un precario equilibrio.   

La fama ha raggiunto Kang quando, in Inghilterra nel 2015, e poi in tutto il mondo, è stato tradotto La vegetariana, che arrivò a noi passando dalla edizione inglese, nella versione di Milena Zemira Ciccimarra (molto apprezzata su queste pagine, a suo tempo, da Remo Ceserani), mentre gli ultimi titoli hanno trovato una traduttrice dal coreano, Lia Iovenitti. È questo il libro che ha stabilito Kang come «caso letterario». Il compito di raccontare La vegetariana è distribuito fra diversi narratori, messi davanti al comportamento, ai loro occhi incomprensibile, della donna di cui parlano: alla protagonista che in seguito a un terribile sogno ambientato in una «foresta oscura» e sanguinolenta decide di smettere di mangiare carne e via via di «trasformarsi in una pianta» – viene dunque negata la parola, ciò che rende il suo mondo interiore intangibile e ne fa una sorta di allegoria fuori cornice, che tracima nel testo solo attraverso il racconto dei suoi sogni, via via affioranti, in corsivo, nel romanzo. I narratori – suo marito, sua sorella, suo cognato – riversano nel libro tutta la loro impotente rabbia, e l’ottusità maschilista: questo ha fatto da volano alle interpretazioni più scontate del libro (femministe, ecologiste, allusive del sempre più diffuso e sentito tema della anoressia nervosa), propiziandone forse il successo planetario. Ma la bellezza della Vegetariana, che così si esaurirebbe troppo presto, è altrove. Fu detto che l’idea del romanzo era venuta a Kang quando da ragazza si innamorò del verso del poeta coreano Yi Sange: «Ritengo che gli esseri umani dovrebbero essere piante». Attorno a questa immagine elusiva, e innanzitutto meditativa, la scrittrice coreana costruisce quella che Ceserani definì la sua «allegoria moderna», grazie a «la compattezza della narrazione, la concentrazione tematica e formale (che fa pensare alla poesia), la incisività di alcune invenzioni simboliche»: tratti che si possono estendere a tutta l’opera di Kang, e accomunano La vegetariana, per esempio, al breve dittico Convalescenza (Adelphi, 2019).

Non dico addio, il romanzo di prossima pubblicazione da Adelphi (era previsto il 5 novembre, probabilmente arriverà prima), comincia con un vivido e angosciante sogno, ambientato in un cimitero immerso nella neve: il suo primo capitolo rimanda direttamente al massacro di Gwangju, del maggio 1980, compiuto dai militari coreani subito dopo il golpe di Chun Doo-hwan, cui Kang dedicò il polifonico e durissimo Atti umani (Adelphi, 2017). Ma è tutta la narrativa di Han Kang a essere intessuta di racconti onirici, la terra dell’indecifrato in cui la scrittrice coreana si reca volentieri in visita, alla caccia di quanto i suoi personaggi hanno celato a se stessi, e che preme disperatamente per essere restituito alla luce.

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