Han Kang, violenze penetrate nell’inchiostro
Nobel letteratura La scrittrice ha reso protagonista della sua narrativa il corpo, principalmente quello delle donne, dimenticato quando non mortificato da una società goffamente maschilista
Nobel letteratura La scrittrice ha reso protagonista della sua narrativa il corpo, principalmente quello delle donne, dimenticato quando non mortificato da una società goffamente maschilista
All’ingresso della principale libreria di Seoul, il Kyobo, per anni sono stati esposti i ritratti degli scrittori stranieri vincitori del Nobel, ma uno spazio è sempre stato lasciato vuoto, per destinarlo al primo autore coreano che lo avrebbe ottenuto. Questo spazio ora ha un nome: Han Kang. La sua scrittura è un corteo di primati: è stata la prima a ricevere il Booker nel 2016, e attraverso questo premio ha rilanciato la letteratura coreana scritta dalle donne, che contava già un altro tiolo significativo, Prenditi cura di lei, di Shin Kyung-sook.
Da decenni, altri autori importanti – dal poeta Ko al romanziere Hwang Sok-Yong – hanno ambito al riconoscimento dell’Accademia svedese, che si era limitata tuttavia a premiare, per la pace, il presidente della Corea del Sud, Kim Daejung, ventiquattro anni fa.
FIGLIA D’ARTE dello scrittore Han Seung-weon, Han Kang è nata nel 1970 a Kwangju, città le cui ambizioni democratiche – e dunque politicamente molto distanti da Seul – vennero sanguinosamente represse, nel 1980, dal dittatore Chun Doo-hwan. Pur avendo la scrittrice trascorso molti dei suoi anni nella capitale, dove si è laureata all’Università Yonsei, retaggi di quella tragica pagina della storia coreana che si consumò nella sua città natale affollano le sue opere portandone a galla il trauma, che riaffiora in particolare in uno dei suoi romanzi più celebri, Atti umani (2014).
Tramite uno stile apparentemente sobrio, asettico, e tuttavia lucidamente carico di tensione, a tratti quasi brutale, Han Kang ha reso protagonista della sua narrativa il corpo, principalmente quello delle donne, dimenticato quando non mortificato da una società goffamente maschilista. E, attraverso il corpo, ha fatto passare questioni di più ampia portata, dalla violenza domestica alle claustrofobiche dinamiche sociali. In un paese il cui consumo pro capite di carne è tra i più alti al mondo, il suo romanzo La vegetariana irruppe come denuncia di una tensione recondita, spesso camuffata all’interno delle relazioni familiari, e scandita dalle regole soffocanti che la società sudcoreana impone.
Da qui, le motivazioni del Nobel, che premiano la portata all’evidenza, nelle sue pagine (tutte tradotte dall’inglese, in Italia, da Milena Zemira Ciccimarra, che ha rivisto anche la traduzione di L’ora di greco e Non dico addio, firmate da Lia Iovenitti, direttamente dal coreano) del confronto «con traumi storici». E esaltano «la rivelazione della fragilità della vita umana», con una delicatezza e un tatto che grondano dolore.
* Docente di studi coreani all’Orientale di Napoli
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