Sono passati tre mesi esatti dal giorno in cui il gup Roberto Ranazzi offriva 90 giorni al governo italiano per ottenere dall’Egitto risposte e ai carabinieri del Ros per indagare via banche dati, fonti confidenziali e social.

Obiettivo comune: individuare il domicilio dei quattro membri dei servizi segreti egiziani sospettati del rapimento, le torture e l’omicidio di Giulio Regeni, scomparso al Cairo il 25 gennaio 2016 e ritrovato il 3 febbraio successivo, senza vita.

Tre mesi non sono bastati. Così ieri la nuova udienza di fronte al giudice per le udienze preliminari si è chiusa con un nuovo rinvio.

Tutto rimandato al 10 ottobre prossimo, sei mesi di tempo per comunicare al generale Sabir Tariq, ai colonnelli Usham Helmi e Athar Kamel e al maggiore Magdi Ibrahim Abdelal Sharif che in Italia si intende incriminarli per sequestro di persona pluriaggravato, lesioni aggravate e concorso in omicidio aggravato.

Un rinvio a giudizio c’era stato già, lo scorso anno, ma il 14 ottobre 2021 la Terza Corte d’Assise lo aveva annullato: impossibile verificare che gli indagati siano effettivamente a conoscenza del procedimento.

Il regime egiziano non ha mai risposto alla rogatoria della Procura di Roma, vecchia di tre anni (esatti). Né sembra intenzionato a farlo, lo ha detto ieri senza troppi giri di parole il ministero della Giustizia italiano.

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Proprio l’ammissione della totale chiusura da parte del Cairo alle pressioni di Roma – in una nota trasmessa a Piazzale Clodio si riporta del «rifiuto di collaborare nell’attività di notifica degli atti» e la staffilata del «per noi il caso è chiuso» – ha convinto il gup Ranazzi per la sospensione del processo ai quattro agenti e per nuove indagini, affidate ancora al Ros.

Un no su tutta la linea a cui si aggiunge lo sfacciato silenzio alla richiesta, mossa il 20 gennaio scorso, di un incontro tra la ministra Marta Cartabia e l’omologo egiziano Omar Marwan «al fine di interloquire sui passi necessari a rimuovere gli ostacoli per la celebrazione del procedimento penale».

Stavolta la reazione della famiglia del ricercatore italiano non ha ricalcato le speranze dello scorso 10 gennaio. Quel giorno la legale di Paola Deffendi e Claudio Regeni, Alessandra Ballerini, aveva espresso soddisfazione: «La nostra battaglia può proseguire».

Ieri con la fine dell’udienza ha prevalso la rabbia per una strada sempre in salita: «Siamo amareggiati e indignati dalla risposta della procura del regime di al-Sisi che continua a farsi beffe delle nostre istituzioni e del nostro sistema di diritto – ha detto Ballerini – Chiediamo che il presidente Draghi pretenda, senza se e senza ma, le elezioni di domicilio dei quattro imputati. Oggi è stata un’ennesima presa in giro».

Poco prima, Piazzale Clodio era stato teatro di un sit-in, al centro lo striscione giallo «Verità per Giulio Regeni» retto dai genitori.

Insieme a loro Beppe Giulietti, presidente dell’Fnsi e da sempre protagonista di quella scorta mediatica che ha tenuto accese le luci sulla vicenda e sull’impegno civile della famiglia: «Chiederemo che ci sia un’interruzione dei rapporti con l’Egitto qualora dovesse proseguire una politica di omissione e cancellazione delle prove».

Un commento che centra il punto: quali pressioni stia facendo il governo italiano non è chiaro. I rapporti diplomatici, commerciali ed economici non sono mai stati scalfiti, garantendo al regime dell’ex generale al-Sisi l’alone di impunità necessario a proseguire come nulla fosse.

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Nel silenzio su Regeni e nella repressione interna: mentre ieri il gup leggeva la sua decisione, al Cairo la famiglia di Ayman Muhammad Ali Hadhoud, economista egiziano, membro del partito liberale Riforma e Sviluppo, dava conto pubblicamente della sua morte in custodia. Era scomparso il 5 febbraio scorso.

Sabato scorso alla famiglia è stato comunicato il decesso, senza dettagli. Dei funzionari, lo scorso febbraio, avevano parlato di un ricovero per schizofrenia nell’ospedale psichiatrico Abbaseya, seppur Ayman non ne abbia mai sofferto.

Alla richiesta di fargli visita, il procuratore ha risposto che l’arresto non risultava. Altri agenti avevano parlato di detenzione per il tentato furto di un’auto. Fino alla notizia della morte e alla scoperta che la procura aveva ordinato la sua sepoltura come «corpo non identificato».

Una (forse) buona notizia invece arriva per l’attivista egiziano più noto, Alaa Abdel Fattah, condannato a dicembre agli ennesimi cinque anni di prigione. Ha ottenuto la cittadinanza britannica tramite la madre, la matematica Laila Soueif, nata a Londra. Ora la famiglia spera che quel passaporto si faccia chiave e apra la serratura della cella.