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Tutti da Modi per il governo, i Gandhi tentati dalla spallata

Tutti da Modi per il governo, i Gandhi tentati dalla spallataIlprimo ministro indiano Narendra Modi durante un comizio a Hyderabad – foto Ap/Mahesh Kumar A.

Le elezioni in India Il leader del Bjp costretto a trattare, decine di voli portano a Delhi i capi dei partiti minori

Pubblicato 4 mesi faEdizione del 6 giugno 2024

Se fino a martedì gli occhi e le telecamere di tutta l’India erano sparpagliate letteralmente in tutto il subcontinente per registrare le reazioni di queste elezioni da record, da ieri i giochi sono tornati nella capitale New Delhi.
Decine di voli da tutto il Paese hanno portato nella capitale altrettanti leader politici regionali, rappresentanti di partiti che per dieci anni hanno contato pochino nelle alchimie del parlamento federale, schiacciati dalla maggioranza assoluta con cui il Bharatiya Janata Party (Bjp) di Narendra Modi dal 2014 ha dettato i tempi, i modi e la direzione del Paese più popoloso del mondo.

Non sarà più così, perché la composizione del parlamento figlia del 4 giugno per la stampa indiana e per l’opinione pubblica sancisce il ritorno della «politica di coalizione». Non si può più fare di testa propria, lo strapotere del Bjp per ora è finito, bisogna tornare a trattare, contrattare, cedere, trovare compromessi. Bisogna governare insieme.

PER MODI, uno dei politici più accentratori e autoritari che l’India abbia mai partorito dall’indipendenza a oggi, questo è uno scenario da incubo. Ma è un incubo necessario. Per questo, nella serata di ieri, il leader non più invincibile si è dovuto sedere a trattare coi soci di minoranza della coalizione National Democratic Alliance (Nda) per assicurarsi che non ci siano defezioni a sorpresa e che alla prova di forza in parlamento ognuno faccia la sua parte. Sabato 8 giugno, quando pare si riunirà per la prima volta il nuovo parlamento, per formare un governo servono almeno 272 voti. La coalizione di Modi ne conta 293.

LA NDA IERI all’unanimità ha ufficialmente nominato Modi «capo dell’alleanza», cioè la persona su cui convergeranno tutti i voti di fiducia per una nomina a primo ministro che sarebbe storica, la terza consecutiva. E da quello che trapela dai comunicati ufficiali, chi potrebbe far saltare il banco per ora ha deciso di non farlo. Nitish Kumar, leader del partito Janata Dal (United), porta in dote 12 seggi. Chandrababu Naidu del Telugu Desam Party ne porta altri 16.

Insieme, senza contare tutti gli altri partiti con seggi a una cifra, Kumar e Naidu hanno il potere di fare e disfare governi da qui ai prossimi cinque anni. Perché senza i loro 28 seggi i 240 parlamentari del Bjp non sono abbastanza per governare. E quindi ieri, a New Delhi, il loro endorsement a Modi è arrivato pagando un prezzo che ancora nessuno conosce, ma sarà sicuramente salatissimo. O meglio, più che un pagamento, ci sarà stata una promessa di pagamento, da incassare tra qualche giorno. A meno che, nel frattempo, non arrivino offerte più interessanti.

Perché mentre la Nda serrava i ranghi, la coalizione delle opposizioni unita sotto l’acronimo INDIA nelle stesse ore si riuniva a Delhi a casa di Mallikarjun Kharge, il presidente dell’Indian National Congress, il partito controllato da decenni dalla famiglia Gandhi. Anche loro compatti, nessuna defezione. C’era Akhilesh Yadav del Samajwady Party, che coi suoi 37 seggi ha strapazzato il Bjp in Uttar Pradesh. C’era Mamata Banerjee del Trinamool Congress, la donna forte del Bengala Occidentale, 29 seggi. C’era M.K. Stalin del Dravida Munnetra Kazhagam (Dmk), 22 seggi in Tamil Nadu. E ovviamente c’erano i Gandhi, tutti: la madre Sonia, la sorella Priyanka, e il protagonista indiscusso di questa tornata elettorale, Rahul, che la coalizione anti-Modi l’ha messa insieme e che ha fatto vincere al Congress 99 seggi.

TUTTA INSIEME l’INDIA conta 233 seggi, per provare a fare un governo ne mancano solo 39 e alla tentazione della spallata è difficile resistere. La posizione ufficiale della coalizione è: queste elezioni hanno sancito la sconfitta «politica e morale» di Narendra Modi, che non ha né il diritto né il mandato di formare un governo perché l’elettorato indiano non ha fiducia in lui. E quindi è aperta la caccia sia ai disertori, sia ai 17 seggi indipendenti che sabato prossimo potrebbero apparecchiare uno dei più clamorosi colpi di scena della storia dell’India indipendente.

SU MODI E IL BJP però c’è una cosa molto importante da evidenziare: il partito nazionalista hindu rimane di gran lunga il primo partito nazionale e, rispetto ai consensi del 2019, la flessione quest’anno è stata minima. Cinque anni fa aveva preso il 37,3% del totale dei voti espressi; oggi ha preso comunque il 36,6% e anzi, in valori assoluti, ha preso quasi sette milioni di voti in più. Questo significa che il modismo è ancora vivo e vegeto e tantissime persone in India hanno voluto confermare la leadership controversa di Narendra Modi.

Ma significa anche che, dietro la propaganda del Bjp, nel Paese ribolle un’India anti-Modi che non è una novità. Spezzettata, silenziata dai media mainstream, spesso addirittura carbonara, questa altra India c’è sempre stata e per dieci anni ha cercato qualcuno che potesse darle una forma e una voce unitaria. Quest’anno quel qualcuno sembra averlo trovato in una coalizione unita quasi solo dall’opposizione al regime di Modi. E che se non riuscirà nello sgambetto, è sicuramente pronta a combattere in parlamento come mai era riuscita a fare negli ultimi dieci anni.

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