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«Amore a Mumbai», il cuore pulsante della città

«Amore a Mumbai», il cuore pulsante della cittàUna scena da «Amore a Mumbai» (All We Imagine As Light)

Al cinema Il secondo lungometraggio di Payal Kapadia, vincitore del Gran premio della giuria a Cannes. Un intreccio di storie tra precarietà, gentrificazione e sentimenti, un punto di vista femminile sul cambiamento

Pubblicato circa 2 ore faEdizione del 10 ottobre 2024

Amore a Mumbai è il titolo scelto dalla distribuzione italiana per All We Imagine as Light, il film che ha sorpreso lo scorso Festival di Cannes, arrivando negli ultimi giorni, ma già come un evento visto che rappresentava il ritorno dell’India nella competizione dopo trent’anni, per conquistare un meritatissimo Gran premio della giuria. La traduzione forse tradisce un po’ ciò che nel titolo internazionale veniva evocato, quel sentimento cioè di flânerie, fra luce e magia, che attraversa la narrazione, un’aria calma di dolcezza tropicale ma radicale tanto da far svanire ogni possibile suggestione «turistica».

È VERO che Mumbai ne è il centro, il cuore, la cartografia sentimentale e fisica in cui si delinea il movimento delle tre donne protagoniste, Prabha, Anu e Parvaty unite dal fatto di lavorare nello stesso ospedale; le prime due sono infermiere, e condividono l’appartamento, l’altra più anziana, cuoca. Prabha (Kani Kusruti) è una giovane donna chiusa, sempre molto trattenuta nelle sue emozioni, non esce mai con le altre nemmeno per andare al cinema, e di fronte al medico che la corteggia si irrigidisce. È sposata ma non vede il marito da molto tempo, lui è emigrato in Germania e dopo un po’ non si è più fatto sentire. Fino a quel pacco arrivato inaspettato con dentro una specie di minipimer di lusso. Il matrimonio era combinato, come succede spesso, una cosa che la giovane Anu (Divya Prabha) non può tollerare e per questo litiga con la madre che le manda dal paesino le foto di possibili sposi. Lei si è innamorata di un ragazzo che è musulmano, mentre Anu è indù, un ostacolo insormontabile come è impossibile trovare un luogo dove stare da soli.

A Mumbai vive e è nata anche la giovane autrice, Payal Kapadia, scoperta nel 2021 dalla Quinzaine con A Night of Knowing Nothing, un film che affermava una cifra poetica e politica personalissima, e al tempo stesso in dialogo con quell’immaginario del suo Paese – dal classico Satyajit Ray a altri autori più underground – che ne ha saputo cogliere e illuminare in profondità contrasti, rivolte, mutamenti, sconfitte, utopie. Un talento confermato in questo nuovo lavoro pieno di invenzioni e di epifanie, di chi sa ascoltare il mondo e mettersi in gioco. Del primo film, che raccontava il movimento degli studenti universitari indiani nel 2016, e l’amore impossibile fra due ragazzi unendo archivi, found footage e le lettere e il diario di una donna che si firmava solo come «L», Kapadia mantiene la forma ibrida, filmando la metropoli come se fosse un mare caotico, umida, avvolgente, in cui le luci brillano nell’eterna pioggia e una colonna sonora accompagna qualsiasi istante. Mumbai è la città più popolata dell’India, accoglie persone da ogni luogo del continente mischiando lingue e dialetti e religioni al punto che molti fanno fatica a comprendere l’hindi.

A MUMBAI ogni villaggio ha almeno un famigliare, dice la voce fuori campo nelle prime sequenze intrecciandosi a altre, un coro sussurrato di storie alla ricerca di un piccolo spazio nella folla che non è soltanto fisico ma soprattutto esistenziale: significa andare avanti, non essere sopraffatti. La macchina da presa attraversa le strade, ne ascolta il respiro, pensieri e stati d’animo si sovrappongono quasi a restituire una interiorità collettiva all’improvviso non più anonima. Una donna per un anno ha lavorato presso dei ricchi e finalmente, dice, «ho mangiato bene, ma ero incinta…»; un uomo cambia mille lavori, la precarietà che inghiotte chi non sta dalla parte della ricchezza nell’India delle classi, della finanza che ha fatto di Mumbai il suo polo privilegiato, dei grattacieli e delle piccole baracche, dei magazzini di super lusso e dei mercati che sembrano appartenere a un altro tempo. Degli operai che sono cacciati ai margini pure se quella città l’hanno costruita, delle speculazioni che cancellano la memoria di ogni esistenza buttando giù case e quartieri per rifondarli nel segno dei privilegi. È quello che accade anche a Parvaty (Chaya Khadd), che ha sempre vissuto nelle abitazioni della vecchia fabbrica in cui lavorava il marito, ora però la multinazionale edilizia la sta cacciando costringendola a tornare al villaggio, nella regione di Ratnagiri da dove era arrivata la maggior parte degli operai dell’industria tessile a Mumbai – chiusa poi negli anni Ottanta dopo un grandissimo sciopero – , ai quali era stato concesso di utilizzare un terzo dei terreni delle fabbriche per vivere, ma l’accordo non è stato rispettato e loro continuano a lottare.

«Volevo confrontarmi con Mumbai dal punto di vista delle donne che vi lavorano, come tutte le grandi città è un posto pieno di contraddizioni. Se da una parte una donna può essere indipendente sul lato economico e vivere sola, dall’altro si è sempre sotto controllo. Il costo della vita è altro e la gentrificazione feroce, gli abitanti vengono di continuo cacciati dai loro quartieri» ci diceva a Cannes la regista. E nel contrasto fra il microcosmo dell’ospedale, i desideri e i sogni di ciascuna donna che fluttuano come le nubi fuori dalle sue mura, l’aria soffocante di Mumbai e l’improvvisa apertura davanti al mare lì dove Prabha e Anu hanno accompagnato Parvaty, che il film trova un nuovo movimento; un flusso che scorre verso la conquista di una nuova consapevolezza e forse di quell’aria nella quale i desideri possono infine liberarsi, i corpi amare, i fantasmi sparire. Sono i giovani a insegnare, a smuovere il cambiamento, il personaggio di Anu, con la sua rivolta perché innamorata, in questo che è anche un incontro e un passaggio di generazioni, nel quale circola la dolcezza dell’amicizia, della vicinanza, di un mondo femminile.

SE LA «LENTE» del genere permette una osservazione amplificata delle crepe sociali, dall’altra contiene l’energia del cambiamento. Lo sguardo di Kapadia lascia entrare in campo elementi imprevisti, è attento ai dettagli, al colore, a un volto. La sua regia osserva, trasmette le fragilità e i passaggi emotivi dei personaggi mettendosi vicina a loro, senza trucchi né esibizioni di stile ne mostra la poesia. Il respiro mozzo della città nella seconda parte del film si placa in una foresta sensuale, un universo quasi fantastico, dove il tempo rallenta e ciascuno può ritrovare sé stesso insieme agli altri. Una prossimità fatta di cura con cui affermare una possibile resistenza.

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