«Il Cpr è il luogo meno adatto per chi soffre di disturbi psichici, come quel ragazzo», dice l’avvocato Giuseppe Caradonna. Il legale era stato informato della situazione di Ousmane Sylla quando il 21enne guineano si trovava nel Centro di permanenza per i rimpatri (Cpr) di Trapani-Milo, lo scorso autunno. Non ha avuto modo di incontrarlo: per la polizia si trattava di un soggetto troppo difficile e c’erano problemi di sicurezza. «Perciò ho chiesto una relazione alla psicologa del centro. Dopo averla acquisita ho scritto al questore chiedendo il trasferimento in una struttura idonea. Mi ha risposto che nel Cpr era seguito e che l’Azienda sanitaria provinciale (Asp) di Trapani aveva accertato la compatibilità con la permanenza nella struttura. Questa cosa mi ha lasciato perplesso», continua Caradonna.

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LA RELAZIONE PSICOSOCIALE, che il manifesto ha potuto visionare, è datata 14 novembre 2023. Esattamente un mese dopo l’ingresso nel Cpr siciliano. Il rapporto inizia sottolineando che «il tono dell’umore di Sylla è sempre particolarmente agitato e irrequieto, sia in sede di colloquio che all’interno del settore in cui alloggia». E ancora: «non è collaborativo né con gli altri ospiti, né verso gli operatori del centro, poco disponibile al dialogo e all’ascolto». Sono menzionati comportamenti aggressivi e scontrosi, grosse difficoltà a relazionarsi con gli altri migranti trattenuti. La valutazione psicologica, firmata dalla dottoressa A. Ciotta, si conclude così: «Per tali ragioni ritengo che l’utente possa trarre beneficio dal trasferimento presso un’altra struttura più idonea a rispondere ai suoi bisogni, in cui siano previsti maggiori spazi per interventi supportivi e una maggiore supervisione delle problematiche esposte».

Niente da fare. Passa meno di un giorno e l’avvocato Caradonna riceve una lettera dalla questura di Trapani: Sylla è trattenuto in virtù di un decreto di espulsione, quindi non può andare in una struttura diversa dal Cpr. Le autorità ricordano lo «straniero» è arrivato nel centro «munito di adeguata certificazione sanitaria» attestante la compatibilità con la detenzione. Affermano inoltre che verso il ragazzo è stato disposto uno «specifico consulto psichiatrico da parte di personale dell’Asp di Trapani, ad esito del quale non sono emerse criticità da comportare, allo stato, una dimissione dalla struttura per incompatibilità con il regime di vita in comunità ristretta».

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COSÌ SYLLA resta in gabbia. Nonostante il suo morale stia crollando, nonostante i suoi comportamenti difficili. Non fosse stato per l’innalzamento del tetto di detenzione nei Cpr voluto dal governo Meloni, che lo ha fatto schizzare da tre a 18 mesi in un colpo solo, il ragazzo sarebbe comunque tornato libero il 14 gennaio scorso. Invece rimane ancora dentro. Continua a ripetere di voler tornare a casa, da genitori, sorelle e fratelli. Ma non può neanche essere rimpatriato: l’Italia non ha un accordo bilaterale con la Guinea. Il suo trattenimento è completamente inutile, illogico. E davanti resta oltre un anno di prigionia.

Lunedì 22 gennaio, intanto, nel Cpr di Trapani esplode la rivolta. Buona parte della struttura viene data alle fiamme. I migranti, soprattutto tunisini portati lì poco dopo lo sbarco, protestano contro i rimpatri in una situazione già esasperata per le pessime condizioni di detenzione.

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«ABBIAMO REALIZZATO una visita ispettiva la domenica successiva. La situazione era indecente: 56 persone chiuse in due sezioni che ne potevano ospitare massimo una ventina. Ma i problemi del centro non iniziano con la rivolta: sono strutturali, la situazione era insostenibile anche prima», afferma la deputata dem Giovanna Iacono, entrata nel Cpr il 28 gennaio. «C’erano persone rinchiuse da settimane, altre da mesi. Abbiamo visto situazioni di grande fragilità che dovrebbero essere seguite con attenzione. Altre ce le hanno raccontate. Fragilità di tutti i tipi, compreso il disagio psichico. Come quello vissuto da Ousmane Sylla. Non siamo riusciti a incontrarlo, era già stato trasferito», continua Iacono.

Trasferito a Ponte Galeria. Dove ha retto solo pochi giorni. Di lui restano un disegno e una scritta su un muro: «Vorrei che il mio corpo sia portato in Africa, mia madre ne sarebbe lieta». Intorno, solo la rabbia dei compagni.