Tra Marx e Balenciaga, noi spettatori di un genocidio
Dipinto dell'artista palestinese Mona al-Saudi – foto The Palestinian Museum
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Tra Marx e Balenciaga, noi spettatori di un genocidio

Davanti agli occhi A Gaza un gruppo umano trasformato in oggetto senza vita o senza diritto ad averla
Pubblicato 5 mesi faEdizione del 10 giugno 2024

È il mio primo articolo per questo storico giornale, il manifesto, e sono piuttosto emozionata. Inizierò in grande, parlando della mia nuova coppia preferita: Marx e Balenciaga.

La casa di moda da anni prende oggetti comuni e li vende a prezzi esorbitanti senza modificarli affatto. Ha venduto scarpe sportive marce (letteralmente) a 1.500 euro, uniformi da netturbino per 3mila euro e l’ultima, meravigliosa: un rotolo di nastro adesivo che si può usare come braccialetto, come quando te lo metti mentre appendi qualcosa al muro, per altri 3mila euro… un oggetto che vale 2,5 euro in qualsiasi ferramenta. Balenciaga sta esponendo il concetto di feticismo della merce di Marx (e non scrivo «concetto marxista» perché lo stesso Marx diceva di non essere marxista).

IL FETICISMO DELLA MERCE, così riassunto, è una qualità magica che attribuisce agli oggetti caratteristiche che hanno a che fare con le relazioni di produzione. In questo caso il nastro adesivo non vale contemporaneamente 3mila e 2,5 euro, ma le sue relazioni di produzione danno risultati diversi a seconda che sia venduto in una ferramenta o in un negozio di lusso. La differenza non è il metodo di produzione materiale, ma il metodo di produzione simbolica (che non è, comunque, disgiunta dalle sue materialità).

Brigitte Vasallo è attivista, femminista e scrittrice

Con le relazioni di potere, in un contesto di pensiero binario, succede esattamente lo stesso: il potere smette di essere precisamente una relazione per diventare un oggetto con qualità intrinseche e, quindi, assolute. E questo vale sia per il potere che per la sua mancanza: ciò che in alcuni contesti viene definito privilegio e oppressione. Il popolo oppresso, il genere oppresso, la cultura oppressa, la lingua oppressa.

APPLICHERÒ QUESTO pensiero a Gaza, perché non trovo nulla di cui valga la pena scrivere mentre stiamo assistendo a un genocidio. Lo applicherò per capire come è possibile che una parte della popolazione continui a negare il genocidio, come è possibile che continuiamo a vedere dipinti e discorsi e articoli che esaltano Israele con il pretesto del «diritto alla difesa».

I motivi sono senza dubbio molto più ampi e complessi dello spazio di questo articolo, ma voglio evidenziarne uno: per decenni l’immaginario globale, non solo del nord purtroppo, è stata nutrito di islamofobia attraverso discorsi, film e libri premiati, applauditi e letti in scuole e università, tra i quali ne segnalo uno particolarmente doloroso: Identità assassine di Amin Maalouf, con un discorso che lungi dall’essere «una denuncia appassionata della follia che incita gli uomini a uccidersi tra loro», come dicono le sue quarte di copertina in diverse lingue, è in realtà una critica feroce dell’Islam.

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LE SINISTRE GLOBALI, con il loro portato storico di opposizione alle istituzioni religiose, falliscono nel comprendere la dimensione relazionale del potere e la dimensione alterizzante dell’islamofobia. Nelle infinite conferenze che ho tenuto, a suo tempo, contro l’islamofobia a sinistra, il rifiuto dell’Islam era totale e, tuttavia, nessuno del pubblico sapeva mai dirmi nulla dell’Islam se non i quattro pregiudizi ignoranti diffusi dalla stampa o dai ciarlatani.

L’islamofobia non è il rifiuto dell’Islam, ma il rifiuto delle persone musulmane sotto il fantasma e l’identificazione di queste persone con regimi fascisti, regimi dai quali non siamo esenti neanche nei paesi del nord di spirito cristiano. Qui entra il feticismo della merce: quell’Islam che in realtà sono le persone musulmane raggruppate sotto tale parola non è una struttura di potere in sé, come qualità essenziale. Al contrario il suo potere, come ogni potere, è relazionale. Una persona musulmana in Arabia Saudita e un’altra persona musulmana in Europa occupano posizioni di potere in quanto musulmane totalmente diverse. Il rifiuto dell’islamofobia nei paesi non musulmani è la difesa di una minoranza attaccata, che non è nemmeno necessario ci piaccia: pensare che tutto un gruppo umano debba o possa piacerci per una delle sue qualità è una forma di feticismo in sé.

Le politiche e gli attivismi antirazzisti non sono stati all’altezza, in tema di islamofobia, di comprendere ciò che chiamerò «islamicità», perdonate il neologismo sarcastico, intendendola come una specie di scelta. Come se una persona musulmana non è una «buona vittima» perché ha scelto, in qualche modo, di «appartenere» a quella categoria che ci sembra fatale e che addirittura crediamo minacci il resto della popolazione.

QUESTO BRODO DI COLTURA, cucinato a fuoco lento come i brodi buoni, sta contribuendo enormemente a rendere possibile il genocidio di Gaza. E, naturalmente, non importa che non tutte le persone palestinesi siano musulmane: l’islamofobia, come qualsiasi violenza alterizzante, non conosce sfumature.

Concludo con una nota sulla disumanizzazione: il processo di vedere un gruppo umano come un oggetto senza vita o senza diritto a essa. Un gruppo umano che si guarda solo a partire dal parametro della distanza rispetto al proprio essere. Il parametro che farà di quel gruppo «gli altri», che non sono solo diversi (la differenza non disumanizza) ma così diseguali che la loro sofferenza non attiva il nostro desiderio di protezione, non attiva l’io collettivo, che è il noi.

STIAMO VEDENDO video indescrivibili dell’esercito israeliano che rimarranno incisi nelle nostre anime per sempre. Ciò che mi preoccupa è che possiamo pensare che le persone che stanno commettendo il massacro, fermando i camion con aiuti umanitari e celebrando le bombe su Gaza, siano peggiori di chiunque di noi. Lo abbiamo visto in altre guerre: io personalmente l’ho visto nella guerra di Jugoslavia, dove persone perfettamente funzionali a livello sociale, simpatiche, affettuose con il loro ambiente, si trasformavano in assassini. Lo spiega la stessa Hannah Arendt in La banalità del male: «quelle persone» siamo noi sotto la giusta propaganda.

Se non impariamo a proteggerci da questo, a proteggerci dall’uso dello status di vittima senza considerare le relazioni di produzione di tale status, senza chiederci «vittime in quale rapporto o rispetto a cosa» e senza analizzare tutti i rami della nostra posizione per capire che possiamo essere allo stesso tempo vittime e carnefici, saremo eternamente fragili a questa stessa manipolazione. E il fascismo viene a prenderci. In modi molto sottili, molto imprevedibili, ma usando sempre quella parte di ogni gruppo che si sente ferita.

RICORDATE BALENCIAGA. In quel braccialetto stupido c’è una lezione politica che forse può salvarci.

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