Internazionale

Tregue fantasma, il no di Beirut e Hamas. Onu: «È l’apocalisse»

Le macerie della scuola-rifugio colpita ieri nel campo profughi di Nuseirat foto ZumaPress/Omar AshtawyLe macerie della scuola-rifugio colpita ieri nel campo profughi di Nuseirat – ZumaPress/Omar Ashtawy

Medio Oriente «Netanyahu aggiunge condizioni per far deragliare il dialogo», da Gaza al Libano si allarga l’operazione militare israeliana. Nazioni unite inascoltate: il nord gazawi «a rischio imminente di morte»

Pubblicato circa 2 ore faEdizione del 2 novembre 2024

In un comunicato congiunto, ieri, i capi delle agenzie delle Nazioni unite hanno definito «apocalittica» la situazione in cui versa il nord di Gaza: «L’intera popolazione palestinese è a imminente rischio di morte». I comunicati e gli appelli dei più alti vertici dell’Onu e delle organizzazioni umanitarie non potrebbero essere più spaventosi, da mesi a questa parte.

Eppure non smuovono: né sanzioni né pressioni politiche, nonostante alle azioni pratiche di assedio e blocco degli aiuti umanitari si uniscano le continue dichiarazioni di intenti dell’esecutivo israeliano. Come quelle del ministro delle finanze Bezalel Smotrich che ieri, forse per festeggiare l’approvazione del budget di guerra 2025, ha chiesto la rioccupazione di Gaza «per molti anni»: «Una colonizzazione politica può essere realizzata entro l’anno».

A GARANTIRE la spavalderia dell’ultradestra di governo è anche il flusso costante di armi, senza il quale la copertura dei «sette fronti» citati dal premier Netanyahu crollerebbe in poco tempo. Fa scalpore nel mondo arabo l’arrivo nel porto egiziano di Alessandria della nave Kathrin, piena di materiale esplosivo (150 tonnellate) diretto all’esercito israeliano, e da settimane in giro per il Mediterraneo.

Quell’esplosivo continua a far saltare in aria palestinesi a Gaza: ieri stragi a Beit Lahiya (cinque uccisi), a Nuseirat (colpita una scuola-rifugio, dieci vittime, e una casa, tre morti), a Khan Younis (centrate due auto, tre uccisi), ad al-Mawasi (tre). Si aggiungono ai 47 palestinesi vittime di raid israeliani nella notte precedente tra Deir al-Balah, il campo profughi di Nuseirat, Zawayda, tante donne e tanti bambini. Il bilancio aggiornato a ieri mattina – e che non tiene conto dei dispersi, almeno 10mila – è di 43.300 palestinesi uccisi e 102mila feriti dal 7 ottobre 2023.

Una buona notizia: l’Organizzazione mondiale della Sanitò ha annunciato la ripresa della campagna vaccinale anti-polio nel nord di Gaza, sospesa la scorsa settimana a causa dell’assedio e dell’impossibilità di raggiungere gli ospedali, semi vuoti, sia di mezzi che di medici, arrestati a decine dall’esercito israeliano.

IN QUESTO CLIMA il dialogo per il cessate il fuoco vive continui stop. Le posizioni restano distanti e ieri Hamas ha fatto sapere di aver rifiutato la proposta egiziano-qatarina di tregua temporanea di pochi giorni in cambio del rilascio parziale di ostaggi israeliani, donne e anziani. Il motivo del rigetto sta, dice il movimento islamista, nell’assenza di riferimenti al ritiro israeliano, al cessate il fuoco permanente e alla riapertura del valico di Rafah, chiuso da Israele il 6 maggio scorso. Hamas insiste sulla proposta presentata a maggio dal presidente Usa Biden, poi tradotta nella risoluzione 2735 del Consiglio di Sicurezza Onu.

Cessate il fuoco lontano anche in Libano. Sembrava a un passo pochi giorni fa, con diversi analisti che vedevano nelle elezioni statunitense del 5 novembre un’occasione d’oro per l’amministrazione Biden, presentarsi al voto con un risultato concreto in politica estera (soprattutto agli occhi della comunità arabo-americana). Tutto sfumato e la lettura ora è opposta: nessuna tregua possibile sul fronte israelo-libanese prima del voto, con Tel Aviv che confida nella vittoria di Trump e nella luce verde all’ampliamento del conflitto.

Ieri il primo ministro libanese Najib Mikati ha negato le voci circolate in mattinata: la richiesta da parte di Washington di una tregua unilaterale. Una sorta di gesto di buona volontà verso Israele, che non appare solo inaccettabile agli occhi del paese aggredito ma che non tiene conto dell’unico attore militare del paese, Hezbollah. Mikati ha ribadito che un accordo è possibile solo se entrambe le parti si impegnano nell’implementazione della risoluzione Onu 1701 del 2006.

AL CONTRARIO, ha aggiunto Mikati, «l’allargamento delle operazioni aeree israeliane, le ripetute minacce alla popolazione perché lasci città e villaggi e i nuovi raid su Beirut confermano il rigetto di tutti gli sforzi verso un cessate il fuoco». La conferma stava già nelle parole di Netanyahu di due giorni fa: «Apprezzo davvero molto il supporto americano e la mia politica è semplice: se è possibile, dico sì, ma quando non è necessario dico no».

Un ruolo fondamentale l’avrebbe avuta il ministro ultranazionalista Ben Gvir e la sua minaccia di lasciare il governo nel caso di un accordo con Hezbollah, posizione – a dir la verità – molto bipartisan. Così Netanyahu ripete la strategia già vista a Gaza, suggerisce una fonte istituzionale libanese a L’Orient-Le Jour: «Aggiunge nuovi condizioni o allarga le operazioni militari per far deragliare il dialogo». Ieri i raid israeliani sono proseguiti: a Tiro, dove è stata distrutta una moschea e alcune case; nel sud di Beirut, a Baalbek a est. Dall’8 ottobre 2023 sono 2.897 i libanesi uccisi.

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Cisgiordania. Palestinesi arrestati, i soldati gli scrivono numeri sulla fronte

Giovedì mattina l’esercito israeliano ha compiuto un’incursione nel villaggio di Dura, a Hebron, Cisgiordania occupata, tanto duro da costringere la municipalità a chiudere le scuole. L’obiettivo: una ventina di ex prigionieri politici, tutti riarrestati. Sono stati condotti nella casa di Nayef Rjoub, ex parlamentare del Consiglio legislativo palestinese per ore.

Hanno poi raccontato di essere stati bendati, ammanettati, insultati e picchiati. Sulle fronti dei prigionieri, i soldati hanno scritto dei numeri: «Ogni detenuto aveva un numero – racconta Osama Shaheen, rilasciato ad agosto dopo dieci mesi in detenzione amministrativa, a Middle East Eye (che pubblica le foto) – Ci chiamavano per numero, non per nome». Lo stesso racconta Ayed Dudin, paramedico rilasciato a luglio.

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«20 anni di carcere per chi chiede di sanzionare lo Stato israeliano»

Che il dissenso, seppur flebile, dentro Israele sia ridotto ai minimi termini da una repressione di Stato senza precedenti lo ha ricordato a tutti giovedì il ministro delle giustizia Yariv Levin: in una lettera alla procura generale ha chiesto poteri speciali per introdurre condanne fino a venti anni di carcere per i cittadini israeliani che chiedono sanzioni internazionali contro lo Stato di Israele.

L’«occasione» è nata da un intervento dell’editore del quotidiano Haaretz, Amos Schocken, che durante un dibattito a Londra ha parlato dei palestinesi «combattenti per la libertà» e del regime in vigore in Israele come apartheid. Da parte sua il ministero della giustizia ha chiesto alla procura generale di fornire il dicastero di poteri speciali per limitare l’attività del quotidiano.

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