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Tirdad Zolghadr, le porte chiuse di Berlino

Tirdad Zolghadr, le porte chiuse di Berlino

Intervista L'autore, curatore indipendente e accademico iraniano sta pagando un prezzo molto alto per aver espresso la sua solidarietà al popolo palestinese: incontro

Pubblicato 6 giorni faEdizione del 21 settembre 2024

Incontriamo uno dei protagonisti dell’attuale repressione in arte e cultura a Berlino, Tirdad Zolghadr autore, curatore indipendente e accademico iraniano che per la sua posizione di solidarietà alla causa palestinese ha pagato un prezzo molto alto. Riguardo alla sua recente esperienza alla UdK (Università delle Arti di Berlino) sta promuovendo il ciclo di conferenze e seminari internazionali «Why Germany?».

Cosa è successo?

Sono stato invitato dall’UdK per una posizione di visiting professor in un programma post-laurea, lavorando con molta autonomia, e mi è stato detto che ci sarebbe stata una revisione del contratto dopo 18 mesi, ma sarebbe stata una formalità. Ho scoperto poi che interventi autoritari nella didattica e altre aree da parte del praesidium interno all’università erano di routine. Anche se ho lavorato in precedenza in contesti istituzionali diversamente autoritari, devo dire che sono rimasto molto sorpreso. Il mio avvocato, specializzato in regole e leggi universitarie, mi ha detto che questo è lo standard in Germania.

Ti dico che ho davvero cercato di «stare al gioco», finché a novembre quando il massacro di Gaza era già in corso mi sono unito a una protesta studentesca all’UdK, a cui poi è stato presente il presidente dell’università. Subito dopo la protesta è stata definita dal quotidiano FAZ «violenta, ignorante e antisemita».  Io e altre due persone, uno studente ebreo e un collega afro discendente, siamo stati nominati ed infangati dai media. Quindi ecco tre nemici di razza proprio lì. Tra le centinaia di professori e insegnanti dell’UdK, eravamo solo tre che sostenevano le proteste degli studenti, un altro è italiano e si è dimesso, quindi ne è rimasto solo uno. Solo una minoranza di professori ha poi cercato di sostenermi in nome della libertà di parola, non perché siano a favore della Palestina e dell’impegno civico, ma non ci sono riusciti. Altri professori parlerebbero in mia difesa privatamente, ma non lo farebbero pubblicamente e non firmerebbero una lettera.

Anche imbarazzante da inventare un tale quadretto?!

L’articolo pubblicato non era solo diffamatorio ma anche molto impreciso, dato che il giornalista aveva raccolto informazioni da terzi. Come in una reazione a catena sono stato diffamato su altre piattaforme, e più tardi, a Marzo, ho capito che c’è stato uno sforzo per tenere segreta una votazione fino all’ultimo minuto, al fine di escludere gli studenti post-laurea dal loro diritto di voto, per decidere di non rinnovare il mio contratto e andare avanti con la mia cancellazione.

Chi ha votato alla fine? I professori?

Sì, professori, c’è un comitato specifico per le arti e le scienze che è responsabile di una serie di cose all’interno dell’università, compreso il mio lavoro. Di solito è un mix di studenti, personale e professori. Sono cresciuto professionalmente ascoltando amici e colleghi di Teheran che mi dicevano che ero fortunato a non insegnare lì e che avrei dovuto smettere di lamentarmi. Alla fine i metodi non sono gli stessi ma sono paragonabili, in entrambi i posti ci sono dei tranquilli tecno-burocrati ai quali la maggior parte dei colleghi ha troppa paura di rispondere. E questo è tutto ciò che serve. Premiano chi sta al gioco e intimidiscono, ricattano, denunciano alla stampa chi osa protestare.

Ecco. Come ci organizziamo?

Difficile rispondere, parlando con gli avvocati ci sono molti metodi attraverso i quali ci si può opporre legalmente all’attuale stato delle cose. I tribunali hanno permesso che parole e altri significati vietati dalle élite politiche e mediatiche possano esser usati e vengano poi classificati come questioni di libertà di parola. Anche volendo queste vie legali non sono percorribili se non c’è un movimento parallelo che le sostenga. La legge non può operare nel vuoto. Anche se i tribunali decidono qualcosa, non hanno alcun effetto nella vita reale, perché hanno bisogno di pressioni dal basso e, preferibilmente, anche dall’alto, anche se questo non avverrà entro una generazione. Quindi abbiamo bisogno di manifestazioni, proteste e così via per mantenere la pressione. Su un altro piano ho imparato che è una perdita di tempo essere diplomatici, ho provato davvero tanto ad ascoltare l’altra parte, a non essere conflittuale, ma non mi ha portato da nessuna parte. Ho pagato un prezzo molto alto per questo. Sono d’accordo con Iris Hefets, una delle leader di Judische Stimme (intervistata precedentemente per Alias) che ci ha detto in uno degli incontri che ho organizzato all’UdK: «Se percepiscono la paura in te, si sentiranno più forti e saranno più aggressivi, quindi bisogna tracciare una linea di demarcazione e rimanere fermi sui propri principi, senza lasciar trasparire l’ansia». È una cosa che ho imparato a mie spese e non è il modo in cui opero di solito. Lavorando nel campo dell’arte tutto ha sfumature e le relazioni sono piene di negoziazioni, in questo momento la mia provenienza non mi aiuta affatto.

Vedo che nel programma di «Why Germany?» (Perché in Germania?), l’obiettivo è quello di lavorare per una sorta di organizzazione del discorso di dissenso che è stato ospitato in varie piattaforme accademiche. Vi rivolgete sia agli accademici che al movimento stesso?

Sto cercando di organizzarmi all’interno di una cornice di attivismo culturale, con alcuni colleghi che cercano di creare una piattaforma che introduca la Palestina a un pubblico tedesco che è indeciso e che non sa a chi rivolgersi. Stiamo cercando di essere molto didattici e di non spaventare troppo. Sto anche lavorando con gli studenti laureati e post-laureati della UdK per cercare di formulare una risposta collettiva, perché il mio caso non è stato l’unico. L’UdK ha una lunga storia di discriminazione, intimidazione, ricatto, è un’istituzione molto autoritaria e mi risulta che non sia un’eccezione in Germania. Stiamo cercando di costruire una strategia che abbia un impatto su questa istituzione e anche su altre. Nella serie di conferenze a cui ti riferisci, lavoro con persone di tutto il mondo su diversi aspetti, uno dei quali è quello di fare pressione sui nostri colleghi tedeschi e far capire loro che non sono applauditi a livello internazionale.

Come pensano di essere applauditi in questo frangente?

Pensano sia la cosa giusta da fare per proteggere la vita del popolo ebraico, pensano di opporsi ai terroristi e ai simpatizzanti di Hamas, pensano di difendere la libertà e di combattere la buona battaglia. Molti miei colleghi la pensano così. Per quanto riguarda il lavoro con «Why Germany?» in secondo luogo, si tratta di analizzare le ragioni di un simile comportamento in Germania, poiché sono molte, non si tratta solo di senso di colpa. E anche di fare un brainstorming su quali siano le alleanze, le coalizioni, i sistemi di supporto che possono darci autonomia a lungo termine. E questa è la domanda chiave per avere una risposta a lungo termine a questo pasticcio.

Ritieni che fare pressione sugli accademici tedeschi e sull’opinione pubblica valga la pena, sottraendo nel frattempo energie all’organizzazione effettiva di forme parallele di dissenso e sostegno?

Assolutamente sì, bisogna chiedersi dove si può avere più impatto, a seconda delle possibilità: Io parlo tedesco, conosco molte istituzioni tedesche, so come parlare ai tedeschi. Sento di poter avere un impatto maggiore rispetto all’organizzazione di una raccolta fondi per Gaza, o all’organizzazione di manifestazioni, perché le decisioni prese qui, in quanto grande paese europeo, avranno effetti in Palestina ed altrove. Quindi, minare il modo in cui il mainstream tedesco pensa, le istituzioni, gli accademici, i media, le élite politiche, avrà un impatto.

C’è anche lo spazio tra le manifestazioni e il mainstream che deve essere affrontato, per colmare il vuoto degli studenti universitari, dei professori dissidenti, anche se molto pochi. Guardare a un lavoro autonomo che si basi su questo e che si espanda altrove.

Vuoi dire costruire un discorso…

Sì, certo, ma un discorso che diventi infrastruttura e che guardi ai beni comuni. A causa della situazione disastrosa, la questione dei beni comuni è sempre più evidente ed urgente. Vedo un grande divario tra lo Stato, le sue istituzioni e la strada, per così dire. Per esempio, qui gli studenti non riescono a organizzarsi a lungo termine come negli Stati Uniti o in altri paesi, perché non c’è una genealogia della resistenza in piazza, come antifascista italiana lo vedo chiaramente.

Le vie di cui parli in termini di costruzione di strutture sostenibili e di modi per aprire spazi per l’immaginazione le considero parte del mio lavoro. Ho fatto parte della campagna Deutsche Wohnen & Co Enteignen, un processo a lungo termine contro la gentrificazione che ho contribuito a costruire per anni qui a Berlino. Ora mi sento in crisi con molte di queste alleanze, alleati politici, amici personali, colleghi professionisti, e gli strumenti intellettuali che ho acquisito hanno un grande punto interrogativo, perché molti sono perfettamente a loro agio con la situazione attuale. O, nel caso di alcune istituzioni, partecipano attivamente al silenzio. Condivido quindi questa crisi con un’intera generazione che si è trasferita qui negli anni ’90 e che pensava che Berlino potesse essere una sorta di capitale della libertà e del discorso, come lo fu New York per gli ebrei europei in fuga dal nazismo, soprattutto per quanto riguarda gli operatori culturali provenienti dal Medio Oriente.

Che fine ha fatto «Die Ästhetik des Widerstands» di Peter Weiss (L’estetica della resistenza)? A proposito di testi illuminanti per la generazione formatasi negli anni 90 in Germania. O era solo l’estetica?
(Ride)

Ho fatto una ricerca di recente su questo tema e ho visto che Hau (il teatro di ricerca Hebbel am User) , proprio qualche anno fa, ha celebrato un anniversario del libro invitando autori e artisti per cento giorni, inclusi alcuni palestinesi, che oggi non verrebbero affatto invitati, né avrebbero una voce remota su qualsiasi questione. Le parole contenute in alcuni di quei testi di presentazione non potrebbero essere stampate oggi dalla stessa istituzione qui a Berlino.

Si ricollega a ciò che dicevi, ovvero che la tradizione della resistenza attiva in questo Paese a un certo punto è morta. C’era e si è spenta. Uno dei miei momenti preferiti del libro è quando aiutano Brecht a fuggire dalla Svezia perché stava per essere arrestato ed estradato in Germania e dicono: «Lo abbiamo aiutato a mettere in valigia solo l’essenziale di cui non aveva bisogno. Così abbiamo messo in valigia tutti i classici greci, tutta Rosa Luxemburg, Goethe». E fa un elenco di oltre cinquanta libri fondamentali per la formazione politica di Brecht. Quello che vedo ora è che pochissimi dei miei colleghi hanno effettivamente trattato e custodito la maggior parte di questo patrimonio. Una delle esperienze che mi ha davvero colpito quando mi sono trasferito qui è stata la Völksbuhne. Le dichiarazioni politiche, le ambientazioni, il senso del rischio, l’estetica, tutto! Poi, quando si è trattato di mettere in pratica politicamente ciò che hanno predicato per anni, hanno gettato Jeremy Corbin sotto un autobus. Anche il leader di un partito politico europeo è stato cancellato da una delle istituzioni più controverse della città! Sostenere una causa e difenderla sembra sia una pratica aliena al 90% delle persone di questo paese.

Ma neanche il rigore e la reputazione intellettuale individuali e della sbandierata «diversità» delle istituzioni e dei loro titolari, per cui molti pensatori e operatori culturali contemporanei noti oggi in Germania, sono in grado di superare questa morale meschina? E di infondere nel discorso una dignità sufficiente per far spazio ad un dissenso esplicito.

Nemmeno. Nonostante le difficoltà, la cultura e le tradizioni della protesta sono molto vive in Italia, in Iran, in Francia, ma non qui. Inoltre c’è molto più opportunismo e interesse personale a livello strutturale. Norman Finkelstein ha recentemente affermato che se si fosse solo trattato solo del problema della delicata situazione morale dei tedeschi, questi avrebbero potuto fare un passo indietro e lasciare che l’Unione Europea o altro si occupasse della situazione. Evidentemente c’è dell’altro, ideologicamente, materialmente, geo-politicamente e in termini di predominio. C’è stato un momento in cui in Germania era pieno di intellettuali arabi e stranieri ed in cui normale intellettuale tedesco doveva fare più attenzione alle sfumature nel pensiero e nel linguaggio post e de-coloniale, era in corso un cambiamento. Eccoci qui, con un tempestivo contraccolpo che si è manifestato in tutte le direzioni. Un altro livello di opportunismo locale è rappresentato dalle risorse che saranno nelle mani di Israele e degli Stati Uniti e per le quali la Germania si sta impegnando: gas, idrogeno e così via.

Non è certo il momento delle sfumature, ora dobbiamo essere coraggiosi e immaginare una liberazione, una liberazione che sia collettiva.

È sicuramente un buon termine. Sai, Brecht aveva una parola per definirlo: «Plumpes denken», come pensieri crudi, c’è un tempo per le sfumature e un tempo per i pensieri crudi, sostanziosi.

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