Il deputato berlinese della Linke, Ferat Koçak, steso a terra, lacrima per il doppio dolore: la ginocchiata che appena incassato durante il blitz della polizia e l’amara constatazione dell’«incredibile durezza con cui sono stati trascinati via pacifici manifestanti». Venti attivisti pro-Palestina seduti sul prato con le gambe incrociate contro 150 agenti della Landespolizei in giubbotto antisommossa è difficile da rubricare come scontro, mentre non si vede neppure la scintilla tale da giustificare l’urgente e immediato intervento delle forze dell’ordine.

«Non abbiamo avuto un motivo specifico per sgomberare la tendopoli delle organizzazioni pro-palestinesi davanti al Bundestag. Si è trattato di una serie di violazioni di legge» ammette il portavoce della polizia senza dettagliare la lista di «33 reati», se non il divieto di assembramento (negato appena tre giorni fa), il mancato rispetto delle regole sul verde pubblico e, ovviamente, l’incitamento all’odio antisemita: accusa che in Germania scatta in automatico in caso di proteste pro-Palestina.

Dalla ministra dell’interno del Land, Iris Spranger, arriva l’imprescindibile copertura politica all’operazione di «evacuazione» del presidio di 19 tende montate fra la Cancelleria e il palazzo del Reichstag per protestare – anzitutto – contro l’invio di armi tedesche al governo di Tel Aviv, cresciuto esponenzialmente dopo il 7 ottobre. «Decisione giusta. La polizia ha il mio pieno sostegno» taglia corto la senatrice della Spd. Così tutto, formalmente, rimane confinato nel recinto dell’ordinaria amministrazione dell’ordine pubblico. Per i media si tratta di un fatto meramente locale. Eppure accade in pieno giorno nel luogo più frequentato dai turisti di Berlino e il deputato Koçak non è solo un parlamentare del Landtag in carica ma anche il noto politico di sinistra di origine curda da anni nel mirino degli estremisti neonazisti. Una persona da proteggere, in teoria.

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Respinti con forza e anche i dubbi sul singolare tempismo dello sgombero davanti al Bundestag, così speculare alla parallela repressione oltre confine. Secondo le autorità berlinesi è casuale si verifichi esattamente lo stesso giorno delle proteste nelle università in Francia e Usa, e poco importa se l’ipotesi di sincronicità viene rafforzata nientemeno che dalle dichiarazioni ufficiali della polizia escludenti l’urgenza del blitz immediato. «I manifestanti avrebbero potuto pur sempre reiterare i reati di cui sono già accusati. Non potevamo correre questo rischio», è il corollario per spegnere ogni residua perplessità sul caso divenuto ormai solo materia per il tribunale distrettuale.

Fin qui l’autorità. Poi ci sono i berlinesi. Vero insormontabile «problema» per chi governa la capitale al di là degli epicentri della protesta nei quartieri caldi (sempre e comunque definiti «turchi» nella perenne attesa di definirne la reale l’identità) come Neukölln, Kreuzberg, Wedding.

Mentre i sondaggi sull’opinione pubblica pur formulati come «la guerra di Hamas contro Israele» segnalano il disagio generalizzato, mai così profondo, nei confronti del «senza se e senza ma» sui cui resta incardinata l’idea di Israele come ragione di Stato della Bundesrepublik. Ormai a protestare sono anche gli «Schiki-miki», i radical-chic dei quartieri alla moda come Prenzlauer Berg, con gli adesivi con le angurie incollati al parafango delle bici, oltre alle migliaia di persone che ogni giorno disobbediscono al divieto di esibire la kefiah. Dagli studenti alle «mamme col passeggino» che qui da sempre sono il termometro più affidabile per misurare cosa pensa la «gente comune».