Orfeo e Euridice, sublime festa, non rivoluzione
Improvvisi Inventario delle opere che hanno mutato i paradigmi della musica d’arte: puntata 10
Improvvisi Inventario delle opere che hanno mutato i paradigmi della musica d’arte: puntata 10
La storia della musica occidentale è disseminata di luoghi comuni. Alcuni sono peccati veniali, altri mortali: in ogni caso difficilissimi da sradicare. Ad esempio l’abitudine di chiamare «canto gregoriano» tutte le manifestazioni del canto monodico cristiano, pur sapendo che Papa Gregorio Magno, vissuto in un epoca in cui la liturgia musicale era già ampiamente matura, non si è mai occupato di cose musicali. Oppure l’idea che il nome delle note derivi dagli incipit di un inesistente «Inno a San Giovanni», che in realtà Guido d’Arezzo si è inventato di sana pianta per seguire oscuri principi di carattere alchemico e misteriosofico. O ancora la cattiva consuetudine di definire «Inno alla gioia» il testo di Schiller utilizzato da Beethoven nel movimento finale della Nona Sinfonia, quando l’espressione più fedele è con tutta evidenza «Ode alla fratellanza», se non addirittura alla «libertà».
Tra le centinaia di equivoci storiografici ancora annidati in molti manuali di storia della musica, uno pressoché inestirpabile è quello che riguarda la cosiddetta «riforma dell’opera seria». Si è letto e si continua a leggere che in un anno ben preciso della storia, il 1762, un illustre compositore tedesco, Christoph Willibald Gluck, e un non meno rinomato librettista italiano, Ranieri de’ Calzabigi, si sarebbero lanciati nella ardimentosa avventura di riformare di punto in bianco l’opera seria italiana. E che il frutto immediato di questa meritoria impresa fu la messa in scena, il 5 ottobre di questo stesso annus mirabilis, al Burgtheater di Vienna, dell’«azione teatrale per musica in tre atti» Orfeo e Euridice. E da qui sarebbe iniziata una epoca nuova, sospinta dallo spirito riformatore di Gluck e Calzabigi, per il teatro musicale italiano. Una ricostruzione storica – lui la chiamava «parodia» – che faceva infuriare, tra gli altri, Giovanni Carli Ballola, il conoscitore più profondo di questa particolare temperie dell’opera di matrice italiana.
La redazione consiglia:
Mozart secondo Strehler, storica festa di armonieIn effetti, le cose sono andate assai diversamente. Anzitutto Orfeo e Euridice, al di delle sue incomparabili bellezze musicali, non è affatto un’opera, secondo le convenzioni del tempo, bensì una «festa musicale» che non a caso Calzabigi definisce prudentemente «azione teatrale». L’occasione della mise en scène è infatti un avvenimento tipicamente celebrativo, ossia l’onomastico dell’ Imperatore Francesco I, omaggiato con tutti gli onori da Giacomo Durazzo, al tempo direttore generale dei teatri imperiali. È, in altre parole, un unicum irripetibile, che spiega in buona misura i caratteri stilistici del tutto peculiari e anomali del lavoro. Svincolati dagli obblighi «di genere» e dagli standard commerciali, compositore e librettista si sentono liberi di creare uno spettacolo assai più vicino alla loro sensibilità poetica e musicale e, al tempo stesso, lontano dagli stilemi strutturali e vocali dell’opera seria. E infatti riducono a tre (rispetto ai sei o sette abituali) i personaggi in scena (Orfeo, Euridice e Amore), avvicinano i lembi, solitamente assai distanti, del recitativo e dell’aria, inventano forme nuove come il dialogo arioso tra solista e coro, attribuiscono alle parti corali e alla danza (con l’apporto fondamentale del coreografo e danzatore Gaspare Angiolini) un ruolo musicale e drammaturgico centrale.
Ma queste indubbie innovazioni non si configurano affatto come una «riforma»: in primo luogo perché rimarranno per lungo tempo chiuse nel recinto del Burgtheater e l’opera italiana proseguirà imperterrita a coltivare per alcuni decenni le proprie convenzioni. E in secondo luogo perché in realtà Gluck e Calzabigi, dal punto di vista teatrale, tornano all’antico e cioè alle forme arcaiche della festa barocca. La loro involontaria «rivoluzione» correrà lungo le strade carsiche del teatro settecentesco per esplodere, un quarto di secolo più tardi, con la palingenesi sconvolgente delle Nozze di Figaro.
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