Vanno in scena periodicamente alla Scala di Milano appuntamenti attraverso i quali il Teatro che ha fatto la storia della lirica celebra la sua memoria. Dopo le riprese lo scorso anno della Bohème (1963) di Franco Zeffirelli e delle Nozze di Figaro (1973) di Giorgio Strehler, è la volta di Die Entführung aus dem Serail (Il ratto dal serraglio) di Wolfgang Amadeus Mozart nell’allestimento ideato per il Festival di Salisburgo nel 1965 dallo stesso Strehler, regista milanese per eccellenza, e approdato alla Scala nel 1972.

LA DIREZIONE è affidata a un direttore giovanissimo e assai brillante, Thomas Guggeis, già assistente di Daniel Barenboim a Berlino e da poco Direttore musicale dell’Opera di Francoforte, che riesce con baldanza e sensibilità a restituire a uno spettacolo concepito più di cinquant’anni fa, in un clima di sperimentalismi distanzianti che tentavano di mandare in soffitta l’ingombrante maniera naturalistica viscontiana e zeffirelliana, la sua natura di opera in cui, come scrisse Mozart, «le passioni, violente o no, non devono mai essere espresse fino al punto da suscitare disgusto, e la musica, anche nella situazione più terribile, non deve mai offendere l’orecchio, ma piuttosto dilettarlo e restare pur sempre musica», festa di ritmi, melodie e armonie.

LA CHIAVE di lettura di Strehler, che mira a smontare e rimontare elementi dei linguaggi tradizionali del teatro d’opera, parte dal carattere bifronte del Singspiel, che alterna parti recitate e numeri musicali, e dalla stereotipia del libretto, incentrato sul tema, battutissimo nel Settecento, dell’amore contrastato e del musulmano illuminato. Il lato «debole», l’azione veicolata dalle «povere» parti recitate, viene affidato ai toni farseschi e alle scene solari della commedia dell’arte (rappresentata dalla maschera che compare in scena). Il lato «forte», l’espressione dei sentimenti veicolata dai «ricchi» numeri musicali, viene affidato a scene lunari in cui i personaggi, quando iniziano a cantare, avanzano verso il corridoio d’ombra del proscenio che oscura i loro volti. La scelta di illuminare il parlato e offuscare il cantato, lasciando al pubblico la facoltà di usare selettivamente vista (per l’azione, piena di silenzi pantomimici) e udito (per i sentimenti nascosti alla vista), è un dispositivo intellettualistico che, nella ripresa di Laura Galmarini, continua ad ammaliare il pubblico colto e storicamente informato, aiutato anche da un cast d’eccezione, che non solo risolve egregiamente i melismi impervi della partitura, ma le dà credibilità scenica. La Konstanze di Jessica Pratt è sfogata in acuto, agile e umbratile comme il faut. Vezzosa e tenera la Blonde di Jasmin Delfs, dai vocalizzi naturalissimi. Il Belmonte di Daniel Behle è aggraziato e vario nelle dinamiche. Credibile Michael Laurenz in Pedrillo, divertente ma svociato l’Osmin di Peter Rose. Sven-Eric Bechtolf recita un Selim appena un po’ monotono.