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«The Green Border», il confine dell’umano e l’Europa a due facce

«The Green Border», il confine dell’umano e l’Europa a due facceScena da «The Green Border» di Agnieszka Hollan

Venezia 80 Il film di Agnieszka Holland, in concorso, accende i riflettori sulla brutalità dei respingimenti. La persecuzione contro i migranti tra Polonia e Bielorussia, il rischio della solidarietà, la zona rossa

Pubblicato circa un anno faEdizione del 6 settembre 2023

The Green Border, Il confine verde, è quello tra la Bielorussia e la Polonia, chilometri infiniti di alberi, di natura, di animali che separano l’Europa (e la Nato) dalla zona di influenza russa,e che oggi sono uno dei luoghi d’accesso possibile per chi cerca di entrare in Europa «clandestinamente» ma viene invece stritolato dalle politiche europee e da quelle dei singoli governi. Da una parte la Polonia cattolica e razzista – come tanti altri paesi europei – dall’altra la Bielorussia di Lukashenko che ha illuso chi arrivava da zone devastate dai conflitti quali Siria e Afghanistan di un territorio safe-gate Giunti lì in volo potevano facilmente attraversare il confine che li avrebbe portati in Europa, fortezza e al tempo stesso luogo fragile di contraddizioni sempre più profonde.

DA QUI PARTE Agnieszka Holland per il suo nuovo film, in concorso, The Green Border, che parla appunto della Polonia sempre più a destra di Duda, dell’Europa indifferente e complice che «paga» i regimi autoritari purché tengano fuori i migranti dai confini – ce ne è una lunga lista da Erdogan al presidente tunisino Saied, ultimo in ordine di apparizione – delle strategie dei governi che usano le persone nelle loro prove di forza senza preoccuparsi delle loro vite. Intrappolati tra Polonia e Bielorussia, e nei loro regolamenti di conti – che rimandano alla Russia di Putin e alle alleanze Nato – gli esseri umani di ogni età vengono picchiati, derubati, stuprati, gettati come fossero sacchi di spazzatura da una parte all’altra, e muoiono di fame, di sete, di freddo, risucchiati dalle paludi della imponente foresta. Dove non c’è copertura di rete, così non si può comunicare, i medici non sono ammessi, e anche i media sono tenuti lontani dal governo polacco. La chiamano «la zona di emergenza» chi vi viene sorpreso finisce in galera e rischia di restarci a lungo.Holland sembra guardare al suo film sul nazismo, Europa Europa (1990) per costruire una narrazione del presente che interroga a partire da quanto accade ai migranti diverse parti della società del suo Paese – e che potrebbero essere di qualsiasi altro luogo europeo. Bianco e nero, una scelta che quest’anno ritorna in diversi film della Mostra, diviso in capitoli il film comincia con una famiglia siriana padre, madre, nonno e tre bambini che dalla Bielorussia vuole raggiungere un parente in Svezia. Sono stremati dalla guerra, dalla violenza ‘l’Isis ha torturato il padre, i bambini non vanno a scuola. Eppure la madre ha accettato questo viaggio solo perché le hanno assicurato che sarà «facile» altrimenti non avrebbe mai messo in pericolo i piccoli. A loro si unisce una donna afghana, viaggia sola, vuole chiedere asilo in Polonia, le cose sembrano tranquille ma una volta al confine con la Bielorussia precipitano e loro si ritrovano nel bosco senza sapere dove andare, in una trappola di brutalità e privazione di ogni minimo diritto, respinti da una parte all’altra.

IN QUESTO che diventa un teatro del contemporaneo, Holland dispone i suoi soggetti: ci sono i soldati che si prestano a questa disumanità «per dovere» -eichmannianamente. Gli attivisti che aiutano e provano a resistere correndo molti rischi. I cittadini indifferenti che se li critico poi non trovo lavoro. Chi come Julia, che è psicanalista, ha scelto di non occuparsi dal mondo e si stupisce di fronte alla rabbia contro la destra e le bugie sui migranti di un suo paziente. Questi universi, ciascuno con la sua visione della realtà si incrociano, qualcuno cambia e decide di esporsi, molti altri rimangono invece nelle loro convinzioni. Finché nell’ultimo capitolo i confini si aprono: è iniziata la guerra in Ucraina, i profughi ucraini arrivano accolti con gentilezza anche dalle autorità. Cosa hanno di diverso dagli altri?

Sono dunque molte le domande che la regista mette in campo in un film che nella scelta di rimanere in un solo luogo, quel confine e il bosco, illumina senza concessioni la brutalità di un azzeramento del diritto umano.

È UN RITUALE ripetuto, feroce, implacabile che si afferma, in cui a un certo punto i migranti quasi spariscono come individui, nonostante ciascuno ripeta spesso le sue storie, per diventare una moltitudine indistinta da inseguire e strumentalizzare. È l’aspetto più forte della regia che in questa «frattura» rispetto a un racconto concentrato su una sola prospettiva solleva la sua inquietudine sulla contemporaneità e sul futuro. Come può quanto accade in quel luogo non pesare sul resto, non determinare altre repressioni, altre violenze, nuovi conflitti? L’Europa razzista che si riflette nel totale distacco di chi massacra le persone mentre si organizza la serata – come fanno molti dei giovani militari – o appunto in chi pensa che quanto accade non lo riguarda che prospettiva sociale e politica può offrire? Così come la volontà dell’accoglienza basata sulle opportunità, secondo guerre e provenienze. Questione di opportunità. E di un diritto che non ha valore in sé. Holland ci riflette e insieme ai migranti parla di noi.

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