La Mostra 80 è finita senza sorprese. I premi della giuria con presidente Damien Chazelle hanno cercato di tenere insieme quelle istanze che hanno attraversato il concorso, a cominciare da una necessità politica di dialogo col nostro tempo.

Romanzo di formazione (male gaze) al femminile e in dialogo con spunti molti attuali, Poor Things si era imposto dalla prima proiezione come il possibile Leone d’oro. Evidentemente la giuria ha condiviso il plauso generale sul Lido mantenendolo sino in fondo.
È quello di Lanthimos un film che funziona alla perfezione nella scrittura e nella regia, con una diva come Emma Stone su cui è costruito, dai primi passi disarticolati del personaggio, bambina/adulta riportata in vita a quella sua nuova consapevolezza di donna che afferma le sue scelte. Ed è un film di grossa produzione che sarà – ci si augura almeno – un successo di pubblico e assai probabilmente entrerà in una o più cinquine Oscar cosa che per la Mostra ha la sua importanza.

In un programma che ha seguito direzioni molto diverse, l’aspetto produttivo è stato un riferimento comune – film grosso budget o con produzioni influenti come l’A24 della Priscilla di Sofia Coppola – che viene il dubbio sia all’origine di una delle Coppe Volpi, quella alla protagonista Cailee Spaeny, non l’attrice più interessante se si pensa a Jessica Chastain in Memory di Michel Franco – di cui è stato premiato il protagonista, Peter Saarsgard – o a Alba Rohrwacher in Hors-Saison di Stephan Brizé. E a proposito di Franco: Memory, giunto a fine festival è stata una (bella) sorpresa e la sua scrittura avrebbe meritato più di quella di El Conde di Larrain che fatica invece a trovare un equilibrio e per di più non uscirà nemmeno in sala (sarà su Netflix in ottobre), dettaglio oggi di notevole importanza.

Rispetto al tema politico ricorrente nelle diverse opere, e non solo del concorso principale, con la necessità di trovare forme narrative attraverso cui rispondere a ciò che la realtà afferma, la giuria ha scelto un gruppo di titoli esemplari: da Green Border di Agnieszka Holland, che vista l’accoglienza forse si aspettava di più, allo spiazzante Evil Does Not Exist di Hamaguchi, una riflessione metafisica (e cinematografica) sul rapporto uomo-ambiente in Giappone, Paese che ha avuto esperienza di distruzioni atroci – dalla bomba di Hiroshima alla catastrofe nucleare di Fukushima.

E, naturalmente, Io Capitano di Matteo Garrone, unico titolo italiano dei sei in gara premiato – anche se l’Italia, presente in modo massiccio, quest’anno ha preso molto. Che ha avuto anche il premio Mastroianni al migliore attore emergente per il suo protagonista, il magnifico Seydou Sarr, la cui presenza illumina di verità ogni fotogramma.

È un premio importante questo a Io Capitano nell’Italia e nell’Europa di oggi, perché dà voce ai migranti, e per il modo in cui lo fa, in un «controcampo» che sceglie il punto di vista di chi il «viaggio» lungo la rotta del Mediterraneo lo compie. Se nel film di Holland i migranti sono la presenza attraverso la quale siamo noi europei a essere messi in discussione, Io Capitano attraversa quelle «tappe» di cui sappiamo e che conosciamo in una «prima persona» resa nella dimensione visuale fantastica delle immagini, e nell’affermazione di una libertà. Non ci sono sempre ragioni, le persone partono perché partono e ne hanno pieno diritto. E questo i governi, il nostro e quelli europei, devono accettarlo: è il nostro tempo, e rispondere costruendo una fortezza è inadeguato e criminale.