Sarà che lo chiamavano «Hurricane Billy» da quando arrivato a Hollywood da Chicago aveva vinto giovanissimo l’Oscar con Il braccio violento della legge (The French Connection, 1971), per l’impertinenza con cui amava mettere in dubbio film dopo film le convenzioni.

Ma l’eternamente giovane William «Billy» Friedkin non ha smentito sé stesso neppure in quello che è diventato il suo ultimo film.

Presentato fuori concorso dopo la sua morte – è mancato all’improvviso lo scorso 7 agosto a 87 anni – The Caine Mutiny Court-Martial si è subito affermato come uno dei titoli memorabili presentati questi giorni sul Lido. Parlando di lui – che aveva molti appassionati tra i registi delle generazioni più giovani – il presidente della giuria veneziana Damien Chazelle ha detto: «Se da piccolo il nome di Friedkin mi faceva pensare alla paura, collegandolo a un film quale L’esorcista, ha poi coinciso con l’amore per il cinema».

E L’esorcista (1973) è stato presentato nei Classici in versione restaurata, ancora un omaggio al suo autore che nel 2013 aveva ricevuto il Leone d’oro alla carriera.

The Caine Mutiny Court-Martial era un film che Friedkin aveva in mente da parecchio; all’origine c’è la pièce di Herman Wouk già portata sullo schermo da Edward Dmytrick con Humphrey Bogart nel 1954, e da Robert Altman per una produzione televisiva nel 1988.

Friedkin sposta l’ambientazione originaria coi riferimenti alla Seconda guerra mondiale al presente della guerra in Iraq e nel Golfo Persico, dove la nave in questione ha il compito di sminare l’area. E a differenza di quella di Dmytryk mantiene l’impostazione teatrale rimanendo sempre nell’aula del tribunale dove svolge il processo contro il giovane tenente Steve Maryk (Jake Lacy) accusato di ammutinamento nei confronti del capitano della nave, Queeg (Kiefer Sutherland).

Non è la prima volta che Friedkin lavora in una stanza chiusa – L’esorcista, Festa di compleanno del caro amico Harold, Bug – e senza perdere tensione e dinamismo, che si confermano qui in una straordinaria precisione formale.

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A sua difesa il tenente avanza l’improvvisa incapacità del comandante di fare fronte alla tempesta che aveva travolto la nave con l’ostinazione di mantenere una rotta in cui erano messi in pericolo sia l’equipaggio che la nave stessa, lasciando intendere così che l’uomo è instabile mentalmente. E che dei segni di questa sua instabilità si erano già manifestati nei mesi precedenti, al punto da spingerlo a raccoglierli su un diario.

Accuse che l’interessato respinge categoricamente sostenendo invece che il giovane ufficiale – e con lui quelli che lo hanno appoggiato – si è fatto prendere dal panico e dall’isteria.

IL CONFRONTO mette in atto – seppure all’inizio in modo impercettibile – una netta decostruzione della dicotomia buoni/cattivi che afferma una visione del mondo poetica e politica che con curiosità si oppone alle banalizzazioni.

«Tutti i film che ho fatto sono sulla sottile linea tra il bene e il male» dice Friedkin di sé. È la figura dell’avvocato difensore Greenwald (Jason Clarke), anche lui un militare a comporre la trama.

All’inizio a disagio – lo ammette lui stesso di avere accettato con riluttanza l’incarico – ha di fronte un’accusa agguerrita e priva di dubbi, una donna decisa che ne smantella le dichiarazioni mettendolo spesso nell’angolo.

Per noi spettatori schierarsi con l’accusato è quasi meccanico contro quella figura tipica del comandante, quasi uno stereotipo di chi ama esercitare il potere del ruolo abusandone, anche nei minimi particolari, con punizioni immotivate e pretese senza senso tali da apparire solo private ossessioni.

La linea di regia è netta, precisa, tagliente: nel controcampo c’ è la corte che vuole mantenere con chiarezza la propria posizione, e la responsabilità che gli viene richiesta da una vicenda molto delicata – ponendosi all’ascolto con scrupolo e rifiutando ogni eccesso di rivendicazione. In questo teatro del Bene e del Male – che non riguarda solo l’ambiente militare ma forse ogni esercizio del potere e prima ancora ciò che governa le relazioni umane, Friedkin traccia geometricamente le sue traiettorie.

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La situazione muta, e addirittura sembra ribaltarsi man mano che la difesa cresce riuscendo con la sua pacata strategia a scalfire la granitica certezza dell’accusa. Nuovamente l’empatia nostra (e forse della corte) va all’accusato a fronte appunto di possibili umiliazioni e offese fatte solo per il gusto di ribadire la propria posizione di comando. Ma il terreno su cui ciò si gioca non è più quello della correttezza morale bensì investe la salute mentale dell’accusato. È lì che si produce la possibile critica – e l’eventuale condanna – al suo agire, come se Friedkin ci suggerisse che, se fosse invece rimasto sul piano della morale, ogni accusa non avrebbe avuto fondamento. È dunque «normale» utilizzare il potere come violenza? E davvero solo l’infermità mentale permette di condannarlo?

LA PRIMA CREPA è aperta. Lo stesso Queeg del resto quando torna davanti alla corte conferma quelle impressioni di una latente paranoia riportate dal suo equipaggio: nervoso, perde il filo delle sue parole, si fissa su episodi senza importanza che hanno però causato delle persecuzioni. Come il caso di certe fragole sparite dalla mensa per le quali ha costretto tutti quanto a cercare una settimana il duplicato della chiave della dispensa (a quanto pare inesistente). Volevo mangiarne ancora un po’, si giustifica.

A quel punto l’esito del processo appare scontato con la vittoria dei «buoni» ma Friedkin insegna – e ce lo ha già peraltro mostrato per tutto il procedimento che l’ambiguità del reale è stratificata e complessa – se, per esempio, anche fra le «vittime» fosse stata messa in opera la stessa manipolazione del potere?

Il finale è un ulteriore smascheramento che ribalta le nostre certezze in un nuovo interrogativo permeando di inquietudine l’ordine delle cose. È la sua grande lezione e ancora di più in un tempo che dall’immaginario pretende catarsi, vittime e assoluzione.