Hurricane Billy, Billy l’uragano. Quel soprannome affibbiatogli poco dopo il suo arrivo a Hollywood da Chicago, quando diventò il più giovane regista che finora aveva mai vinto un Oscar (per Il braccio violento della legge), gli è rimasto (meritatamente) appiccicato tutta la vita. Come si è portato dietro, fino al set dell’ultimo film, girato il febbraio scorso, il sorriso impenitente di chi «ha sempre voglia di fare casino». Per chi lo conosceva, è sempre stato «Billy», come un ragazzino. Mai cresciuto in un Bill. O nella rispettabilità di un William. Eternamente giovane, eternamente pronto a mettere in dubbio le convenzioni del pensiero comune, la pigrizia mentale, la banalità, il conformismo. E, così facendo, a mettere in gioco sé stesso – insieme alle schiere di fan -specialmente tra i registi delle nuove generazioni- aveva infatti moltissimi detrattori. Quelli che lui chiamava «empty suits», vestiti senza niente dentro (una definizione spesso usata per la burocrazia hollywoodiana); o «pols», politicanti.

Una scena da “L’esorcista” (1973)

PER QUELLO, la notizia della morte di William Friedkin, mancato domenica notte a Los Angeles, all’ età di 87 anni, è incredibile quanto triste. «Il mio Dna non suggeriva nessuno spiraglio di successo. I miei genitori, e i loro genitori, sono arrivati da Kiev, durante un pogrom, all’inizio del ventesimo secolo. ….Mia madre aveva dodici sorelle e fratelli, mio padre undici. Non parlavano l’inglese. Erano commercianti, o commessi. Gli uomini della mia famiglia avevano la pelle scura e i baffi spioventi. Le donne erano basse e di corporatura pesante. I loro appartamenti puzzavano di gefilte fish, cavolo, aringhe affumicate e vestiti vecchi». L’incipit dell’autobiografia del regista di Il braccio Violento della legge, L’esorcista, Cruising e Killer Joe, è spietato come lo sguardo che Friedkin posava sull’umanità – di cui amava le contraddizioni, i paradossi e i lati oscuri. «Le paure e la paranoia sono vecchie amiche per me», si legge in un altro passaggio dell’autobiografia.Era atteso alla Mostra di Venezia con il nuovo «The Caine Mutiny Court-Martial»

NON È UN CASO che, armato di una cinepresa in 16mm -e zero conoscenza del mezzo- Friedkin si diede al cinema per raccontare la storia di un uomo condannato a morte ma che, a sentire il cappellano della prigione, probabilmente era innocente. Il film, The People vs Paul Crump (1965), salvò la vita al condannato e, per il giovane, inesperto regista, diventò il biglietto d’ingresso a Hollywood, dove andò a lavorare per il produttore di documentari David Wolper. La Chicago proletaria della Grande Depressione (era nato nel 1935) e quell’ inizio nel documentario rimasero due presenze fondamentali nella grana del suo cinema. Diversamente dalla maggior parte dei registi della Nuova Hollywood, di cui fu uno dei precursori e di cui condivise l’interesse per la rielaborazione creativa dei generi, il cinema di Friedkin non si è, infatti, formato nelle università. Ma, in un certo senso, dalla «strada», alimentato dalla sua inesauribile curiosità – che spaziava dalla cronaca nera, alla religione, alla politica, a Proust (il suo scrittore favorito), all’arte contemporanea (che raccoglieva nello studio della sua casa di Bel Air), all’opera.

Una scena da “Vivere e morire a Los Angeles” (1985)

La redazione consiglia:
William Friedkin, l’occhio chicagoanoCAPACE di distillare lo stesso dinamismo e la stessa elettricità da film giocati nello spazio chiuso di una stanza (L’esorcista, Festa di compleanno del caro amico Harold, Bug, fino all’ultimo lavoro, The Caine Mutiny Court Martial) a quelli incentrati sugli inseguimenti che lo hanno reso famoso (Il braccio violento della legge, Vivere e morire a Los Angeles e il sottovalutato The Hunted- La preda), Friedkin era un autore di istinto sublime e di precisione formale straordinaria. Il senso del suo cinema, e della sua visione del mondo, racchiuso nel punto d’incontro inafferrabile tra i suoi stacchi. Dopo il successo di Il braccio violento della legge, la Warner Bros decise con riluttanza di affidargli l’adattamento del best seller di William Peter Blatty L’esorcista ,dopo che registi come Stanley Kubrick e Francis Coppola avevano rifiutato l’incarico.

A cinquant’anni dall’uscita, questo horror atipico (che Billy non voleva chiamare horror) rimane un film unico, e terrorizzante – sui cui temi Friedkin sarebbe tornato più volte e in modo diretto con il documentario The Devil and Father Amort. In un’opera ricca e inquieta, il suo film preferito – e uno dei suoi capolavori- rimane il feroce Sorcerer (1977), un remake di Il salario della paura di Henry-George Clouzot ambientato in Sudamerica e considerato per anni un film maledetto dalla Paramount che lo ha prodotto. Irriverente per natura, Friedkin non ha mai avuto paura di punzecchiare l’opinione pubblica. Entrambi controversi per ragioni diverse Festa per il caro amico Harold e Cruising (un altro dei suoi favoriti) rimangono due film spartiacque nella rappresentazione della realtà Lgbtq+. E, dalla sua fertile collaborazione con il drammaturgo chicagoano Tracy Letts sono nati due dei suoi film più belli degli ultimi anni e due grandi riflessioni sulla classe in quelle zone dimenticate dell’ America di oggi, Bug e Killer Joe. Spesso accusato di essere un regista «di destra», Friedkin -che aveva già diretto per la televisione un adattamento di Twelve Angry Men– ha scelto un testo d’impostazione teatrale e di ambientazione militare per il suo ultimo film, The Caine Mutiny Court Martial. Il testo di Herman Wouk, già portato al cinema da Edward Dmytrick nel 1954 e da Robert Altman per una produzione televisiva nel 1988. Il film, con Kiefer Sutherland e Jason Clarke, sarà presentato in prima mondiale all’Ottantesima Mostra del cinema di Venezia.