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Taiwan, come la protesta a Hong Kong ha stravolto la campagna elettorale

Taiwan, come la protesta a Hong Kong ha stravolto la campagna elettorale

Elezioni a Taiwan I movimenti di Hong Kong riflettono l’indirizzo politico di Tsai Ing-wen, presidentessa uscente e leader del Dpp da sempre meno incline al dialogo con Pechino. Tsai ne ha approfittato per un’aggressiva campagna anti-cinese

Pubblicato quasi 5 anni faEdizione del 11 gennaio 2020

Nei giorni che hanno preceduto il voto, a Taiwan la questione identitaria è stata più urgente che mai. Tra leggi anticinesi, incidenti di aerei misteriosi e un delicato triangolo tra Cina e Stati Uniti, la campagna elettorale è tra le più controverse della storia dell’isola, con l’aria burrascosa di Hong Kong che soffia anche su Taipei.

DALLO SCORSO GIUGNO ad oggi, i disordini di Hong Kong si sono imposti sul sentire politico dei taiwanesi: in cima all’agenda non c’è più l’economia, ma la sovranità nazionale. «Oggi Hong Kong, domani Taiwan» volantinano gli universitari: ed è proprio questo che teme la società civile, dal momento che «un paese, due sistemi» – il modello adottato nell’ex-colonia britannica – è la regola d’oro con cui Pechino immagina di governare anche Taiwan.

Tutto ciò riverbera negli slogan elettorali dei candidati alla presidenza. I movimenti di Hong Kong riflettono l’indirizzo politico di Tsai Ing-wen, presidentessa uscente e leader del Dpp da sempre meno incline al dialogo con Pechino. Tsai ne ha approfittato per un’aggressiva campagna anti-cinese.

IL SUO MESSAGGIO di fine anno alla nazione riafferma con convinzione i «quattro doveri» della Repubblica Popolare nei confronti di Taiwan e le «quattro intese» del popolo di Taiwan.

Gli otto punti non sono altro che diverse articolazioni di uno stesso concetto: la Cina è nemica, e privilegiare i vantaggi economici con il continente a scapito delle libertà democratiche significa abdicare alla propria identità e alla sovranità dei taiwanesi sull’isola. Non solo: la leader progressista è riuscita, a meno di due settimane dal voto, a far passare un Anti-infiltration Act con l’obiettivo di limitare le interferenze cinesi negli affari di politica interna. E, secondo gli ultimi sondaggi, è favorita sul rivale, il nazionalista Han Kuo-yu: impensabile soltanto fino a sei mesi fa, quando i conservatori del Kuomintang – il cui programma è meno inviso a Pechino – sembravano in netto vantaggio. Nel novembre precedente, lo stesso Han era addirittura riuscito a espugnare Kaohsiung, uno dei principali centri economici del paese e roccaforte del Dpp.

L’INVERSIONE DI MARCIA arriva proprio insieme all’inizio delle proteste, che hanno distratto i taiwanesi da una situazione economica non proprio florida e da un sistema di welfare ancora da potenziare. Tsai è tornata nelle grazie dei suoi concittadini per l’ideologia anti-cinese del suo programma politico, e la prontezza nello schierarsi dalla parte degli hongkongesi fin da subito.

Han si è visto costretto a censurare le proprie posizioni filo-Cina e a esprimere la propria solidarietà all’ex-colonia, ma ha accusato la presidente di strumentalizzare le lotte altrui per scopi elettorali. Lo sfidante ha continuato a battere sull’economia stagnante dell’isola, promettendo ai taiwanesi migliori performance economiche e di «non dimenticarsi mai di chi è in difficoltà». Ma i dati dell’Asian Development Bank raccontano un’altra storia: Taiwan sarebbe il primo paese a beneficiare delle conseguenze della guerra commerciale tra gli Usa e la Cina, con una crescita in termini di Pil del 2.91% – superiore alle aspettative per il 2019.

A complicare ulteriormente il quadro è arrivato l’incidente aereo del 2 gennaio, costato la vita al generale Shen Yi-ming e ad altri sette militari e le cui cause non sono ancora state chiarite. Mentre lo spettro di Pechino aleggia sull’accaduto, rafforzando l’«effetto Hong Kong» e i sentimenti anticinesi, l’opposizione addita come responsabile la stessa Tsai Ing-wen che, in quanto Presidente, ricopre anche la carica di comandante in capo dell’Esercito. Una campagna elettorale conflittuale e confusionaria, in cui si intrecciano le rivendicazioni identitarie di tutte quelle Cine «altre» che sembrano destinate a diventare la nuova trincea del conflitto tra democrazia e autoritarismo in Asia orientale.

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