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Surrealismo, centenario in forma di Labirinto

Max Ernst, «L’ange du foyer (Le Triomphe du surréalism)», 1937, collezione privataMax Ernst, «L’ange du foyer (Le Triomphe du surréalism)», 1937, collezione privata

A Parigi, Centre Pompidou Nell’ottobre 1924, André Breton firmò il «Manifeste du surréalisme»: la mostra inscena tutte le «voci» del movimento che diede l’assalto alla Ragione in nome di un universo ricombinato, cioè libero

Pubblicato circa 3 ore faEdizione del 20 ottobre 2024

Nel 1947, Marcel Duchamp, in qualità di direttore di scena, dà a un’esposizione surrealista la forma di labirinto. Labrys, etimo greco della parola, indica un’ascia bipenne con funzione esclusivamente rituale per i micenei, legato al culto della Grande Madre. Inoltre il labirinto cela in sé un segreto: il Minotauro, un essere doppio, metà uomo e metà animale.

E il labirinto è in fondo l’emblema perenne del surrealismo. Ed è al suo centro simbolico e geometrico che si trova, secondo André Breton, «il punto dello spirito a partire dal quale la vita e la morte, il reale e l’immaginario, il passato e il futuro, il comunicabile e l’incomunicabile, l’alto e il basso cessano di essere percepiti in modo contraddittoria».

Chi si appresta a entrare nel labirinto deve abbandonare le idee chiare della ragione, perché, come in Ulu’s Pants, un delicatissimo e «fantastico» dipinto di Leonora Carrington del 1952, tra le sue mura, la natura annichilisce il progresso, la notte si fonde con il giorno, il sogno si mescola alla realtà. E così André Masson, che dice di preferire «il labirinto mentale pieno di insidie alle vie rette e sicure», concepisce l’effigie del bonhomme acéphale: un uomo rappresentato coi piedi e le braccia divaricate come il vitruviano di Leonardo, ma senza la testa, sfuggendo alla sua ragione, emancipandosi dagli ordini, dai valori superiori, e recando nel suo ventre la figura di un labirinto simbolicamente collegata all’immagine di un teschio al posto dei genitali.

Nelle pagine dei primi numeri de «La Révolution surréaliste», è poi un Antonin Artaud profondamente nietzschiano ad affermare la centralità del labirinto, quando, in una lettera aperta ai rettori delle università europee, scrive: «Più lontano di quanto la scienza potrà mai arrivare, là dove i fasci della ragione si infrangono contro le nuvole, questo labirinto esiste, punto centrale in cui convergono tutte le forze dell’essere, le ultime nervature dello Spirito».

Dora Maar, Sans titre (Main coquillage), 1934, Parigi, Centre Pompidou

In forma di labirinto è anche la mostra parigina al Centre Pompidou, in corso fino al 13 gennaio, che celebra oggi i cento anni del movimento nato con la pubblicazione, nell’ottobre del 1924, del Manifeste du surréalisme di André Breton, ripercorrendone, fino al 1969, gli oltre quarant’anni di eccezionale creatività: Surréalisme, curata da Didier Ottinger e Marie Sarré, che hanno diretto anche il catalogo (pp. 344, € 49,90).

Quest’ultimo si presenta con due copertine capovolte per doppio senso di lettura: una sull’immaginario poetico e una sull’azione più strettamente politica del movimento, alla stregua delle parole di André Breton, che, nel discorso al Congrès des écrivains del 1935, nel voler unire le due anime del gruppo, cita il «changer la vie» di Rimbaud e il «transformer le monde» di Marx come due parole d’ordine che per i surrealisti «fanno una cosa sola».

Del resto, fin dalla sua fondazione, il surrealismo denuncia i soprusi del colonialismo, come nel 1925, quando si avvicina ai giovani comunisti del gruppo Clarté con i quali firma un manifesto contrario alla guerra della Francia in Marocco. Ed è pronto a reagire a tutte le minacce alla libertà e a tutti gli attentati alla dignità umana, combattendo i totalitarismi al momento dell’ascesa dei fascismi nell’Europa degli anni trenta, rendendo così permeabile la frontiera tra creazione poetica e impegno politico.

E non è un caso che il surrealismo, un anno prima dell’avvento di Adolf Hitler al potere in Germania, si doti di una nuova rivista, «Le Minotaure», che si fa emblema della figura bestiale del labirinto, e si popola di mostri e distorsioni, come, solo per citarne alcuni, il ritratto scempiato e beffardo del Führer di Victor Brauner, del 1934, il fotocollage Le Dictateur dal volto di maiale di Erwin Blumenfeld, e il tribale mostro danzante dal volto di uccello, L’Ange du foyer, di Max Ernst, del 1937.

Le visite di André Breton nei territori Hopi, e di Antonin Artaud presso gli indiani Tarahumara, confermano, del resto, la visione surrealista per la quale un’altra relazione con il mondo e una certa armonia tra l’uomo e la natura sono ancora pensabili.

Ai primi tempi del movimento, è Artaud a diagnosticare nell’antropocentrismo moderno le cause del malessere della civiltà occidentale, vocata all’autodistruzione. Sostanzialmente il surrealismo prende a prestito la concezione del mondo medioevale, quella di una continuità tra microcosmo e macrocosmo, lontano dalla dominazione prometeica derivante dal razionalismo moderno. A questo si aggiunga anche una certa attrazione per la pratica alchemica, che André Masson, nel 1943, così formula: «Non c’è nulla di inanimato nel mondo, esiste una corrispondenza tra le virtù dei minerali, delle piante, degli astri e dei corpi animali». Ed è ciò che ritroviamo nel poetico dipinto Scylla (1938) di Ithell Colquhoun, in cui due rocce marine e un corallo in fondo al mare alludono ai genitali maschile e femminile e al loro seduttivo potere metamorfico.

Un passaggio della mostra Surrealism © Centre Pompidou, foto Janeth Rodriguez Garcia

L’erotismo è, sin dal primo momento, al centro del progetto surrealista, una passione capace di provocare gli effetti della osannata follia. L’amore è concepito come un sentimento rivoluzionario e scandaloso. E in questa ricerca di libertà assoluta, la figura del Marchese de Sade appare sin da subito l’unica capace di difendere questa visione rinnovata, liberata da tutto il proibito.

Così, ad esempio, il surrealista «dissidente» Georges Bataille concepisce Eros solo attraverso la sua lotta con Thanatos. E l’Objet désagréable (1931) di Alberto Giacometti, uno dei suoi «oggetti mobili e muti», può essere letto attraverso questo prisma. Per il suo evidente richiamarsi a un amuleto preistorico (al contempo figura femminile, tenera e orizzontale, e fallo, aggressivo e verticale), la sua forma si presta a quello che Bataille definisce un «calembour plastico».

Ma lo sguardo erotico diventa anche strumento per esprimere un trauma socio-politico, come per Hans Bellmer, che realizza la sua prima scultura di bambola nel 1933, l’anno in cui Hitler viene nominato cancelliere e, attraverso la messa in scena della sua erotica poupée smembrata, celebra il patologico, scagliandosi simbolicamente contro la promozione della forza vitale del corpo ariano.

Per accedere alla mostra odierna, i visitatori attraversano un portale somigliante all’Orco cinquecentesco del parco di Bomarzo, dal quale prende avvio una camera onirica ispirata dal fascino dei surrealisti per la cultura popolare delle fiere, dei luna park e dei treni fantasma.

D’altronde, nel surrealismo, l’alto e il basso, il sogno e la realtà collidono, se pensiamo che Louis Aragon è il primo a interessarsi a Lewis Carroll, e a sdoganare nella cultura francese la sua opera, in Inghilterra relegata alla letteratura giovanile, come «documento della storia stessa del pensiero umano».

Aragon arriverà a dire che la libertà degli uomini «risiedeva interamente nelle fragili mani di Alice». E, per Breton, Alice incarna l’idealizzazione dell’infanzia quando scrive, nel primo Manifeste, che è la cosa che più si avvicina alla «vera vita». Il bambino, per i surrealisti, è al tempo stesso soggetto e oggetto di meraviglia, e lo testimonia magnificamente una tenerissima foto di Man Ray, del 1934, in cui un gruppo, tra cui Paul Éluard e René Char, ascolta attentamente e con meraviglia una quattordicenne, futura scrittrice, che recita le sue poesie: Gisèle Prassinos, denominata la «nouvelle Alice», che fu, secondo Breton, «la prova dell’esistenza della scrittura automatica».

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