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Sulle vette, dal primo rifugio all’ultima valanga

Sulle vette, dal primo rifugio all’ultima valangaVista del ghiacciaio della Marmolada da Passo Fedaia – Ap

La vertigine dell’alta quota Per Grohmann, come per i progettisti del rifugio del 1874 e delle caverne di ghiaccio del 1915, la Marmolada "pelata" e pericolosa di oggi era impossibile da immaginare. Ora, per capire come affrontare il futuro, ci vuole uno sforzo speciale

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 5 luglio 2022

Per capire quanto la Marmolada è cambiata, dal ghiacciaio della Punta Penia, dove si è abbattuta la valanga domenica, bisogna alzare gli occhi verso il cielo. Cento metri più in alto della neve e del ghiaccio di oggi, sulla roccia si vede una macchia scura. Non è una cavità naturale ma un buco scavato dall’uomo. È il primo rifugio delle Dolomiti, aperto nel 1874 dal Cai e dalla Società degli Alpinisti Tridentini, una collaborazione che mandò in bestia le autorità austro-ungariche. Era minuscolo (tre metri per quattro di base, due di altezza), umido, scomodo nonostante le brande e le coperte. Fu abbandonato subito, ma si apriva al livello del ghiacciaio.

Nel 1864, dieci anni prima del buco, l’alpinista viennese Paul Grohmann, con le guide Angelo e Fulgenzio Dimai, arrivò sui 3.343 metri di Punta Penìa. Il ghiacciaio rivestiva l’intera Marmolada, fino ai pascoli del Passo Fedaia. Mezzo secolo dopo, per sbarrare la strada agli alpini, i Kaiserjäger austro-ungarici scavarono nel ghiacciaio 12 chilometri di tunnel, fino a 40 metri di profondità. Oggi il 90% di quel ghiaccio è scomparso, e le memorie della Grande Guerra sul massiccio sono affidate alla roccia, tra la Forcella a Vu e la Punta Serauta.

I DATI STORICI aiutano a capire una cosa. Per Grohmann, come per i progettisti del buco del 1874 e delle caverne di ghiaccio del 1915, la Marmolada “pelata” e pericolosa di oggi era impossibile da immaginare. Ora, per capire come affrontare il futuro, ci vuole uno sforzo speciale.

L’immagine delle Alpi completamente prive di ghiaccio nel 2100 (o nel 2050) compare da tempo negli interventi dei climatologi, ma sembra una via di mezzo tra una minaccia e un babau. Cosa succederà tra oggi e quelle date? Come possiamo frequentare le Alpi senza rischi eccessivi?

Cosa può fare chi le gestisce (il governo di Roma, le Regioni e le Province autonome, l’Europa, le aree protette, i club alpini), non dico per evitare quell’effetto, ma almeno per accompagnarlo senza altri drammi?

I glaciologi, categoria utilissima, finora non sono stati ascoltati. Grazie a loro sappiamo che, sul versante italiano del Monte Bianco, negli ultimi decenni la massa dei ghiacciai si è ridotta del 10%, e che nei massicci valdostani più bassi il calo sfiora il 60%. Tre anni fa i glaciologi della Regione Valle d’Aosta e della Fondazione Montagna Sicura ci hanno spiegato che il ghiacciaio di Planpincieux rischiava di far precipitare in Val Ferret una massa di neve e ghiaccio grande come il Duomo di Milano. Più di recente, abbiamo visto i loro colleghi delle Università di Ca’ Foscari e Bicocca estrarre “carote” di ghiaccio capaci di raccontarci il clima dell’Europa del passato. Fantastico.

MA PERCHÉ A NESSUNO è venuto in mente di studiare con il georadar il lembo di ghiacciaio della Marmolada che è crollato domenica? Quanti altri ghiacciai-killer si nascondono in altre zone delle Alpi? Perché la Protezione Civile o il Cnr non cercano risorse per studiarli?

Informazioni utili, a livello più empirico, arrivano dalle guide alpine, che sono straordinari artigiani dell’alta quota. Per tutelare il loro lavoro, ed evitare rischi seri, i professionisti dell’alta quota hanno abbandonato percorsi redditizi e famosi come la via da Chamonix alla vetta del Monte Bianco, che nel 1786 ha visto nascere l’alpinismo. Sono stati abbandonati, o lo saranno a breve, itinerari meravigliosi come lo Sperone della Brenva del Monte Bianco e la normale del Gran Zebrù, nel Parco dello Stelvio. Dalla parete Nord del Monviso precipitano blocchi grandi come auto.

Per scendere e salire dalla Mer de Glace al Montenvers, o dal ghiacciaio di Aletsch alla Konkordia Hütte, vengono costruite ferrate che ogni anno si allungano di qualche metro. A breve potrebbe diventare impossibile l’Ortles, il “tetto” dell’Alto Adige/Sudtirolo.

IN ASIA L’ANNAPURNA, 8.091 metri, la prima grande cima della Terra a essere salita dall’uomo, è diventato una trappola infernale, con cattedrali di ghiaccio instabile e canaloni esposti alle valanghe. Gli sherpa riescono ancora a trovare una via relativamente sicura, gli alpinisti arrivano ancora sulla cima. Fino a quando?

Certo, per chi guarda al Po in secca, oppure alle risaie e ai campi di mais che sembrano la steppa del Sahel, l’idea di salvare la montagna degli alpinisti può sembrare uno sfizio da folli. La mia solidarietà per chi soffre in questi giorni è totale, eppure anche la montagna è preziosa. Intanto gli alpinisti portano reddito alle valli alpine, e non solo. Poi, nonostante il ritiro dei ghiacciai, sappiamo che la domanda di natura e montagna da parte di chi vive in città continuerà a crescere, e che tutelarla significa anche difendere la salute.

Poi, anche il giorno che l’ultimo ghiacciaio alpino svanirà, i nostri figli o nipoti non dovranno abbandonare le montagne. Lassù ci saranno ancora boschi, pascoli, sorgenti, e altri luoghi dove i cittadini potranno «andare a casa», come scriveva oltre un secolo fa John Muir, il padre dei parchi del West americano.

Si dice che le tragedie, per avere un senso, devono lasciarsi alle spalle qualcosa di positivo. Se questa – terribile – della Marmolada convincesse la nostra civiltà cittadina e di pianura a studiare con più amore e serietà la montagna, forse il dolore potrebbe essere meno forte.

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