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La carne arroventa il clima più del petrolio

Allevamenti intensivi di bovini foto Charlie Litchfield/ApAllevamenti intensivi di bovini foto Charlie Litchfield/Ap

Clima Il metano, gas serra potentissimo, è 80 volte più dannoso della CO2, è prodotto principalmente dagli allevamenti intensivi di carne e latticini. La denuncia arriva da Greenpeace Nordic

Pubblicato circa 3 ore faEdizione del 14 novembre 2024

Non possiamo più permetterci di parlare di cambiamento climatico al futuro, o di percepirlo come un fenomeno remoto e lontano. Le alluvioni recenti che hanno colpito Valencia ci hanno offerto la dimostrazione plastica che le sue conseguenze sono sempre più tangibili. E che lo sono anche a casa nostra, nel cuore dell’Europa, il continente al mondo che si sta riscaldando più velocemente. In questo quadro, è sotto gli occhi di tutti che la politica non può più rimandare l’adozione di politiche ambientali ambiziose.

PER QUANTO L’ATTENZIONE DELL’AGENDA climatica mondiale si concentri da decenni quasi esclusivamente sull’anidride carbonica, non tutti sanno che tra i principali responsabili del riscaldamento globale c’è il metano, un gas serra potentissimo, 80 volte più dannoso della CO2 nei primi 20 anni dall’emissione. Questo gas viene prodotto principalmente dagli allevamenti intensivi di carne e latticini. Ed è proprio il suo ruolo nella crisi climatica a essere oggetto del nuovo report di Greenpeace Nordic intitolato Turning down the heat: Pulling the Climate Emergency Brake on Big Meat and Dairy – with special focus on methane.

RIDURRE LE EMISSIONI DI METANO è fondamentale per rallentare il riscaldamento globale e rafforzare la resilienza del nostro pianeta. Ma perché proprio il metano? A differenza dell’anidride carbonica, che rimane nell’atmosfera per secoli, il metano ha un ciclo di vita relativamente breve, dissolvendosi in circa 12 anni. Questa finestra temporale così ridotta rende ancora più urgente una sua drastica riduzione: fermare la produzione di nuove emissioni potrebbe generare un vero e proprio «effetto di raffreddamento» che aiuterebbe a contenere la temperatura media globale.

SECONDO IL RAPPORTO DI GREENPEACE, il comparto della zootecnia è responsabile di oltre il 75% del riscaldamento provocato dal settore agroalimentare. Tra il 1910 e il 2015, il comparto ha registrato un’impennata della produzione per soddisfare la crescente domanda di carne e latticini, tanto che oggi gli allevamenti rappresentano la principale fonte di metano di origine antropica a livello globale.

GREENPEACE È RIUSCITA A QUANTIFICARE il loro impatto, confrontando per la prima volta le emissioni di 29 grandi aziende di carne e latticini con quelle delle cento maggiori aziende di combustibili fossili. Ciò che è emerso è piuttosto sorprendente: secondo le stime, le cinque maggiori aziende produttrici di carne e latticini (JBS, Marfrig, Minerva, Cargill e Dairy Farmers of America) emettono, a livello globale, più metano dei colossi del fossile BP, Shell, ExxonMobil, TotalEnergies e Chevron messe insieme.

IL REPORT DENUNCIA, INOLTRE, la scarsa trasparenza delle grandi aziende di carne e latticini, che raramente forniscono dati completi e verificabili sulle loro emissioni: una mancanza di informazioni che ostacola l’elaborazione di strategie efficaci per ridurre le emissioni e rallenta la transizione verso modelli più sostenibili.

ALCUNE AZIENDE RIESCONO A EVITARE le loro responsabilità grazie a pratiche di greenwashing e alla complicità di governi che continuano a destinare soldi pubblici al settore che mette a rischio la salute delle persone e quella del pianeta.

UN ESEMPIO ITALIANO è rappresentato dal gruppo Cremonini, tra i maggiori produttori di carne bovina in Europa, che tramite la sua controllata Inalca controlla numerosi marchi nazionali (Montana, Manzotin, Fiorani e Montagna). Soltanto nel 2022, l’azienda ha commercializzato quasi 480 mila tonnellate di carne che, secondo le stime di Greenpeace, equivalgono a circa 0,32 megatonnellate di metano emesse. Una cifra che è indicativa del peso delle emissioni provenienti dalle aziende europee nel contesto globale, e che dimostra quanto sia urgente un cambio di rotta anche per l’industria zootecnica italiana.

GREENPEACE STIMA CHE SE L’ATTUALE modello produttivo dell’industria della carne e dei latticini non dovesse subire trasformazioni nei prossimi anni, il settore contribuirebbe a un aumento della temperatura globale di 0,32°C entro il 2050, rispetto ai livelli del 2015. Uno scenario da evitare a tutti i costi: la scienza ci dice, infatti, che anche un incremento di pochi decimi di grado intensifica il rischio di eventi climatici estremi, che mettono in pericolo vite, mezzi di sussistenza e interi ecosistemi.

LA BUONA NOTIZIA È CHE UN’ALTERNATIVA è possibile. Greenpeace Nordic propone infatti un piano di azione concreto, che prevede una riduzione drastica del numero degli animali allevati, limitando così la produzione e il consumo di carne e latticini nei Paesi a reddito medio e alto. L’adozione di simili politiche nel settore agroalimentare si ispira al modello alimentare suggerito dalla dieta EAT-Lancet – una «dieta per la salute planetaria», frutto del lavoro di 37 scienziati di fama internazionale basata su un’alimentazione prevalentemente vegetale. L’implementazione di misure di questo tipo avrebbe effetti immediati e concreti sul clima, al punto che potrebbe comportare una riduzione del riscaldamento attualmente previsto di 0,12°C entro il 2050, corrispondente a un taglio del 37% del riscaldamento attribuibile al settore. Non solo, ogni 0,1°C di riscaldamento evitato potrebbe tradursi in benefici tangibili, riducendo l’esposizione al caldo estremo per 410 milioni di persone e contribuendo alla stabilizzazione delle temperature globali.

PER FAVORIRE UN CAMBIAMENTO strutturale del sistema, Greenpeace Italia ha collaborato con Isde, Lipu, Terra! e Wwf Italia alla proposta di legge Oltre gli allevamenti intensivi, che punta a frenare l’espansione delle pratiche intensive e a promuovere un’agricoltura basata su principi agroecologici. L’obiettivo è spingere il settore a intraprendere una transizione verso un modello più sostenibile e meno dipendente dai sussidi pubblici, con benefici anche per la resilienza ai cambiamenti climatici e per la riduzione del contributo della zootecnia al riscaldamento globale.

UN SISTEMA ALIMENTARE SOSTENIBILE, incentrato su pratiche agroecologiche, offrirebbe ai lavoratori del settore un contesto più equo e bilanciato, riducendo al contempo il consumo eccessivo di carne e latticini. La proposta di Greenpeace e delle altre organizzazioni, che tra gli altri ha il merito di dare una prima definizione legale di «allevamento intensivo», mira quindi a un futuro in cui la produzione alimentare non comprometta il clima e l’integrità degli ecosistemi, offrendo benefici sia ambientali sia economici.

*Greenpeace

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