Sul ring la resistenza al peggio
Bulli e pupa Imane Khelif batte ai punti l’ungherese Luca Hamori che aveva accettato di buon grado di essere la rappresentante del castello di cartone della destra mondiale dopo lo stralunato ritiro dell’altra sfidante, la “nostra” Angela Carini
Bulli e pupa Imane Khelif batte ai punti l’ungherese Luca Hamori che aveva accettato di buon grado di essere la rappresentante del castello di cartone della destra mondiale dopo lo stralunato ritiro dell’altra sfidante, la “nostra” Angela Carini
Era dai tempi di Rocky e Ivan Drago che il pugilato non ci consegnava storie del genere. Imane Khelif batte ai punti l’ungherese Luca Hamori che aveva accettato di buon grado di essere la rappresentante del castello di cartone della destra mondiale dopo lo stralunato ritiro dell’altra sfidante, la “nostra” Angela Carini. E già questo secondo atto solo lo sceneggiatore di Rocky avrebbe potuto scriverlo. Hamori ha dovuto accettare la sconfitta.
Il mondo riprende a girare per il verso giusto, i buoni vincono, o almeno si leccano le ferite in attesa dei prossimi scontri. Ce ne saranno. Avremmo potuto tirare fuori anche il campione dei nazisti Max Schlemmer battuto da Joe Louis nel 1938, e almeno altre dieci o cento storie in cui il pugilato ha incrociato dentro il ring i destini del mondo. Ma forse è troppo per un quarto di finale di pugilato femminile alle Olimpiadi. Eppure i nazisti a questo gioco perdono sempre, hanno sempre perso.
È una certezza. Usciamo dall’incredibile vicenda di fake news russe, vittimismo italiano, culture war grondanti di woke e gender, bullismo razzista contro una pugile algerina senza colpa alcuna se non quella di essere com’è, malafede senza vergogna contro qualsiasi rispetto delle regole sportive, quasi un tentativo di colpo di stato mentale con social e televisioni, Elon Musk e Borgonovo, Jk Rowling e Larussa.
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Manipolazione politica dei corpiOggi per fortuna Imane non era sola, aveva dietro di sé gli algerini e i nordafricani (che sono venuti a tifarla in massa dal vivo portando le bandiere). La sosteneva pur ad esempio il buonumore scanzonato di chi ha scritto sui social post sulla «poliziotta picchiata dall’algerina», rovesciando la retorica fetida della destra che aveva ridicolizzato per prima cosa il tema della violenza sulle donne e del patriarcato («uomo algerino picchia una donna» aveva scritto più o meno la Verità). Si sa come sono fatti.
C’è poco da ridere. Gli algerini di Parigi che 60 anni fa protestarono contro la crudeltà dell’oppressione francese vennero picchiati dalla polizia e buttati nella Senna. Nell’infernale dibattito seguito alla cerimonia di inaugurazione è quasi sfuggita la dolcezza del semplice gesto dei fiori nel fiume lanciati dalla barca degli atleti nordafricani, in ricordo. Perché la battaglia contro il politicamente corretto, qualsiasi cosa sia, è soltanto un darsi di gomito.
Parla di gender e fluidità e intende razzismo, esclusione, muri, fili spinati. Nel post dell’ungherese Hamori che posta un mostro con le corna per ridicolizzare la sua avversaria, c’è tutta la retorica razzista sull’immigrato nordafricano, uno dei topos più resistenti anche del nostro immaginario, un clash terrificante di sessualità, potere, paura. Noi abbiamo i fiori. Abbiamo le lacrime. Le lacrime di Imane Khelif fuori dal ring e durante le interviste in cui ha detto la sua felicità e il suo sconcerto per essere finita in questo casino, sono un bizzarro equivalente dei suoi pugni. Scendono sul viso con tutta l’umanità delle emozioni, il dolore, la gioia, la resistenza al peggio.
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