La doppia azione, militare e politica, con cui il governo dell’Azerbaigian ha costretto nelle ultime quarantotto ore alla resa le autorità armene del Nagorno Karabakh conduce definitivamente l’Europa verso una pericolosa epoca che ha drammatici precedenti.

È l’epoca del fatto compiuto, il tempo delle armi usate per tracciare i confini, l’era in cui l’alternativa bellica rappresenta un rischio sostenibile rispetto alla diplomazia.
L’origine di questa stagione è certamente nella guerra in corso da quasi dieci anni in Ucraina e nell’assalto totale che il capo del Cremlino, Vladimir Putin, ha lanciato assieme ai suoi generali nel 2022, alla fine di febbraio. Da allora la Russia ha scavato una frontiera di trincee lungo le province di Lugansk, Donetsk, Zaporizhzha e Kherson. Ha riportato l’economia ucraina indietro di cent’anni attraverso raid sistematici sulle principali infrastrutture del paese. Ha costretto quella nazione a una terribile crisi sul piano demografico le cui dimensioni saranno chiare soltanto alla fine delle ostilità.

A ben vedere il prezzo che Putin e la sua cerchia stanno affrontando per la loro guerra non sembra affatto eccessivo, e questo dipende soprattutto dalla risposta dell’Europa. Sin qui sanzioni non hanno avuto clamorosi effetti sull’economia russa, che affronta alcuni storici problemi, dal rublo basso ai tassi alti, ma sembra ancora lontana dal crollo che numerosi osservatori ritenevano imminente un anno fa, e che avrebbe comunque dovuto portare nel breve periodo al ritiro dell’esercito dal territorio ucraino.
La pressione della comunità internazionale sta lentamente calando. Per adesso Putin pare avere dimostrato che è possibile muovere un esercito nel cuore dell’Europa senza subire particolari contraccolpi. La prova sta nel fatto che nessuno, oggi, è disposto ad affermare che la guerra in Ucraina terminerà rapidamente, e sempre più ritengono che il presidente, Volodymyr Zelensky, dovrà accettare pesanti concessioni.

La redazione consiglia:
In Nagorno-Karabakh la resa dei separatisti armeni chiude i giochi
Quella guerra devastante, con le sue conseguenze a lungo termine sul piano umano, economico e morale, dovrebbe spingere chiunque lontano dall’ipotesi di un conflitto. Esattamente quella, tuttavia, è diventata un modello per il leader azero, Ilham Aliyev, disposto a correre il rischio dell’isolamento in cambio di un successo militare. Tra la guerra di Aliyev e la guerra di Putin esistono notevoli differenze. Tecnicamente il Nagorno Karabakh si trova all’interno dei confini azeri, non al di fuori. Ma la risolutezza con cui da oltre un anno ha scelto di ricorrere alle armi e l’impunità che gli è stata garantita dalla comunità internazionale sollevano preoccupazioni che vanno oltre lo specifico caso.

L’attacco finale al Nagorno Karabakh è partito, nel più completo spregio della comunità internazionale e delle sue regole, nelle stesse ore in cui a New York cominciavano i lavori dell’Assemblea generale dell’Onu. Eppure Aliyev ha ricevuto l’esplicito sostegno del presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, che proprio dal podio alle Nazioni Unite ha usato la formula «una nazione, due stati» per desrivere i rapporti con l’Azerbaigian, e il tacito consenso della Russia, che ha schierati duemila peacekeeper in Nagorno Karabakh e mantiene con l’Armenia un accordo di assistenza militare. In questo quadro chi potrebbe impedire all’intraprendente Aliyev, una volta riportato il Nagorno Karabakh sotto la sua autorità, di spingere l’esercito verso province armene che ha definito in più occasioni negli ultimi anni «Azerbaigian occidentale»? Non può essere questa Europa, che è legata ad Aliyev da preziosi contratti per la fornitura di energia, e che ieri, per bocca dell’Altro rappresentante per la politica estera, si è timidamente limitata a chiedere agli azeri di fermare le loro «attività militari».