È la fine di un’epoca in Nagorno-Karabakh. Da oggi, per la prima volta dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica, la regione separatista azera a maggioranza etnica armena passerà sotto il totale controllo dell’Azerbaigian. È bastato un solo giorno di «operazione anti-terrorismo» da parte delle forze armate azere per convincere i vertici della Repubblica dell’Artsakh (il nome armeno della parte di Nagorno-Karabakh separatista) a cedere.

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Ma stavolta non c’è spazio per i distinguo, come quelli che furono sollevati dopo la pace del 9 novembre 2022, a conclusione della «guerra dei 44 giorni» che vide un trionfo di Baku. Oggi si chiude un capitolo per il quale da quasi trent’anni generazioni di armeni, con e senza passaporto, si sono battuti e sono morti. E si completa il disegno del presidente azero, Ilham Aliyev, di riconquistare l’enclave separatista dell’Artsakh dalla quale l’esercito azero era stato malamente cacciato nella prima guerra del 1991-93.

SULLO SFONDO ESULTA il presidente turco Erdogan, padrino di Aliyev e principale sostenitore delle forze armate azere. Sono proprio i droni Bayraktar, forniti dalla Turchia, ad aver permesso nel 2020 a Baku di schiacciare il nemico, impreparato, mal guidato e dotato di armamenti troppo obsoleti per contrastare le nuove tecnologie. Il progetto neo-ottomano, anche detto di pan-turchismo, di riunire i popoli turcofoni dal Mediterraneo al Turkmenistan, passando per l’Azerbaigian e il Mar Caspio, è più vicino. Esultano anche le compagnie di trasporti: Turchia e Azerbaigian hanno più volte accusato l’Armenia di ostacolare i lavori per l’apertura del «corridoio di Zangezur», una striscia di terra che dovrebbe collegare il territorio azero alla piccola exclave del Nakhchivan. Da qui, ha promesso Aliyev, passerà «la via commerciale più importante del Caucaso del sud».

Ed è proprio qui che gli armeni ora vedono il pericolo maggiore. Osservando una qualsiasi mappa si vede come la regione armena di Syunik è l’unico ostacolo che rimane tra Ankara e Baku per il completamento della continuità territoriale. Ed è proprio ciò che dicono i russi sui canali Telegram da 24 ore a questa parte: «Prima il Nagorno-Karabkakh, poi sarà la volta del Syunik e a quel punto Erevan. Per l’Armenia è finita».

In generale il mondo russo ha reagito in modo molto emotivo all’offensiva militare azera. Le critiche del governo di Pashinyan al contingente di pace russo, posto a garanzia della fragile pace del 2020 ma mai davvero attivo nel proteggere le posizioni filo-armene dagli attacchi azeri, non sono piaciute.

«ORA VENIAMO A SAPERE che Pashinyan è venuto a sapere della tregua dal governo russo. Molto bene!», scrive qualcuno, citando le parole del premier armeno che si dice estraneo ai negoziati e continua ad accusare Mosca. Accuse pesanti, spesso incentrate sul «tradimento» del Cremlino. «Noi avremmo dovuto difendere una regione che neanche l’Armenia ha mai voluto riconoscere» si legge sui blog militari con la «Z». Per quanto di parte, l’accusa cita un fatto: Erevan non ha mai voluto discutere dello status dell’Artsakh al di fuori dei confini azeri. Come osservano gli analisti, Pashinyan dal punto di vista strategico non è stato lungimirante. Si è inimicato Teheran e Mosca, alleati storici, isolandosi nella regione. E, soprattutto, ha indetto esercitazioni congiunte con le truppe Usa. Il colpo di grazia.

Teheran si è voltata dall’altra parte, Mosca ha iniziato a parlare di Soros e dei manifestanti pagati dagli Stati uniti per rompere la storica fratellanza tra russi e armeni. «Come a Maidan in Ucraina» affermano i più accaniti sostenitori della guerra in Ucraina. Tutto sbagliato. Mentre i manifestanti assiepati nella piazza del parlamento fino a notte inoltrata chiedono le sue dimissioni, Pashinyan rassicura di non credere alle voci di un «colpo di stato imminente».

OGGI INIZIERANNO I «COLLOQUI di pace», o per meglio dire si istituzionalizza il passaggio di consegne definitivo in Nagorno-Karabakh, a Yevlakh, in territorio azero. E intanto si attende di capire la sorte delle decine di migliaia di armeni che a giorni perderanno la loro terra. Le immagini dell’aeroporto di Stepanakert diventato campo profughi evocano una parola terribile per il popolo armeno: diaspora.