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L’equivoco della «pace giusta»

La corte internazionale di giustizia dell'Aia nei Paesi BassiLa corte internazionale di giustizia dell'Aia nei Paesi Bassi

Guerre È accettabile posticipare l’obiettivo, nell’attesa che si creino (sul campo di battaglia) le condizioni per propiziare il risultato? La pace va perseguita attraverso il diritto

Pubblicato un giorno faEdizione del 30 ottobre 2024

Una pace giusta. Tutti la vogliono, tutti la cercano, tutti la invocano. Lo ha fatto, da ultimo, il segretario generale dell’Onu al summit dei Brics, auspicando una soluzione negoziata della guerra in Ucraina. La reclama da mesi Zelensky, in chiave diversa, per opporsi a ogni e qualsiasi trattativa che ponga fine alla guerra. L’ha chiamata in causa anche Carola Rackete per giustificare il proprio voto al Parlamento europeo a favore dell’uso delle armi occidentali per colpire in profondità il territorio russo. Netanyahu, invece, nel suo intervento all’Onu di un mese fa, si è limitato a dichiarare – con l’improntitudine che lo contraddistingue – che «Israele vuole la pace». Per poi, un attimo dopo, autorizzare l’omicidio “mirato” di Nasrallah, prontamente definito da Biden «una misura di giustizia».

Una pace che non si riduca a una temporanea cessazione delle ostilità, e che non si limiti a riconoscere ex post il diritto del più forte, è – dovrebbe essere – nell’auspicio di tutte le persone ragionevoli. Non la pace dei cimiteri, su cui ironizzava Kant, nell’incipit della Pace perpetua (così simile a ciò che sta realizzando Netanyahu a Gaza). Non la «pace dei ricchi» di cui parlava David Grossman prima del 7 ottobre, per riferirsi agli “accordi di Abramo” con cui Israele e le petro-monarchie del Golfo avrebbero dovuto assicurare stabilità alla regione, normalizzando l’occupazione e l’apartheid in Palestina. Una pace coloniale, imposta dai forti sui deboli, alle loro condizioni. Palesemente «ingiusta» e, proprio per questo, illusoria, precaria, inaccettabile.

DOVREMMO ALLORA unirci al coro di chi, oggi, smarcandosi dalla richiesta di un cessate il fuoco subito, pretende una pace giusta? E ritenere magari accettabile posticipare nel tempo il raggiungimento dell’obiettivo, nell’attesa che si creino (sul campo di battaglia) le condizioni per propiziare il risultato? Il problema, in questo tipo di ragionamento, è che ciascuno coltiva una propria idea di giustizia, che in genere non ha niente a che vedere con quella del nemico, che a sua volta accetterà di deporre le armi solo quando riterrà soddisfatte le proprie legittime aspirazioni. Là dove ciascuno invoca la pace, a patto che sia «giusta», si continua a combattere a oltranza. Fiat iustitia, pereat mundus, d’altronde, è il motto dei fanatici, non dei pacifisti. Quelli disposti a tutto, anche a rischiare l’olocausto nucleare, pur di far vincere la propria causa.

Meno pretenzioso dell’ideale della pace giusta è quello della pace-attraverso-il-diritto. Un ideale che risale a Kant e che è stato ripreso e rivisitato, nel corso del Novecento, da teorici del pacifismo giuridico come Kelsen, Bobbio, Ferrajoli. Anche sul modo di definire il diritto, i suoi contenuti, gli strumenti per garantirne l’effettività, non tutti sono d’accordo (basti pensare alle opposte posizioni assunte da Bobbio e Ferrajoli sulla guerra del Golfo del 1991). Ma la nozione di diritto ha il vantaggio di essere meno semanticamente indeterminata di quella di giustizia, pur continuando ad intrattenere con essa un legame profondo. Perché, a meno di giocare irresponsabilmente con le parole, l’idea di diritto, nella modernità, è inscindibile da quella di una legge uguale per tutti, applicata da un giudice terzo rispetto alle parti belligeranti, ricorrendo a strumenti alternativi alla violenza bruta e indiscriminata in cui consiste, per definizione, la guerra.

NON È DIFFICILE accorgersi che la profonda crisi in cui si dibatte, oggi, l’Onu, dipende in gran parte dalla contraddizione originaria inscritta nella sua Carta istitutiva. Che, dopo aver solennemente proclamato, all’articolo 2, il principio della «sovrana eguaglianza» fra tutti gli Stati, lo smentisce riconoscendo ai cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza il potere di veto. Anche istituzioni create successivamente, come la Corte penale internazionale, soffrono di una grave deficit di credibilità se – come oggi accade – i potenti del mondo rifiutano di riconoscerne l’autorità, le boicottano e le strumentalizzano ai propri fini.

Eguaglianza, reciprocità, simmetria sono alla base del progetto di costruzione della convivenza pacifica tra i popoli attraverso il diritto. Mi assoggetto a un tribunale internazionale, a patto che la sua giurisdizione sia riconosciuta da tutti. Mi impegno a rispettare le decisioni comuni, purché abbia la possibilità di contribuire democraticamente alla loro formazione. Accetto di disarmarmi, se anche gli altri lo fanno. Rinuncio ad arricchire l’uranio per sviluppare la Bomba, se anche le potenze nucleari si impegnano a ridurre e, in prospettiva, a svuotare i propri arsenali. È, in fondo, la logica hobbesiana dell’uscita dallo stato di natura, concepibile solo in condizioni di reciprocità. Se continueremo bellamente a ignorarla, il nobile binomio di pace e giustizia resterà senza senso.

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