La «credenziale di dio». O, più prosaicamente, quella «del super utente». Così sarebbe stata soprannominata la credenziale di accesso a ByteDance – la casa madre di TikTok – di un comitato apposito del Partito comunista cinese, secondo la causa depositata in una corte di San Francisco da un ex dipendente della compagnia negli Stati uniti, Yu Yintao.

IN BASE alle sue accuse, queste credenziali “divine” avrebbero dato al Pcc un accesso illimitato ai dati sugli utenti: sulla loro rete di contatti, identificativi della sim card, indirizzo Ip, fino ai messaggi privati. Impiegato dalla piattaforma cinese tra l’agosto 2017 e il novembre 2018, Yu sostiene di essere stato testimone di come funzionari del partito e investigatori esterni abbiano in questo modo identificato e localizzato i manifestanti che all’epoca partecipavano alle proteste scatenatesi a Hong Kong contro le ingerenze del governo cinese. «Dai registri – si legge nella causa riportata dal Wall Street Journal – vedevo gli accessi del Comitato a dati, localizzazioni e lcomunicazioni di manifestanti, attivisti per i diritti civili, sostenitori» della protesta.

La redazione consiglia:
In fuga nel metaverso dalle angosce del presente

UN POTENZIALE ancor più dirompente lo hanno però le affermazioni di Yu sui rapporti fra TikTok e dati degli utenti statunitensi, da anni al centro di un acceso dibattito negli Usa – dove la piattaforma ha 150 milioni di utenti – culminato nell’udienza del Ceo Shou Zi Chew al Congresso lo scorso marzo. «Comprendo le preoccupazioni derivanti dall’imprecisa convinzione che la struttura corporativa di TikTok la obblighi a condividere informazioni sugli utenti Usa con il governo cinese. Questo non è assolutamente vero», era stata la sua prima dichiarazione davanti ai parlamentari.

Secondo Yu, invece, esisteva a TikTok un backdoor channel – una sorta di “porta sul retro” da cui il partito poteva penetrare qualsiasi barriera implementata da ByteDance contro la sorveglianza, e dalla quale aveva accesso anche ai dati degli utenti Usa. L’avversità alla piattaforma cinese – temuta da molti come strumento di sorveglianza del Pcc e proibita sui telefoni dei dipendenti federali – è uno dei pochi temi bipartisan nel Paese altrimenti polarizzato all’estremo. Se le accuse di Yu venissero confermate, le tensioni fra Cina e Stati uniti saranno dunque sicuramente «esacerbate», come dichiara al Time il coordinatore del China Programme alla Scuola di studi internazionali di Singapore Benjamin Ho. Di certo fornirebbero la pistola fumante ai falchi che spingono per un ban totale di TikTok sul territorio Usa.

Per quanto grave e contraria ai diritti umani e digitali, la sorveglianza dei cittadini di Hong Kong – legalmente territorio cinese – rientra fra le prerogative di Pechino che si è conferita l’autorità per «indagare» i contenuti delle piattaforme tecnologiche. Non solo: se Washington la definisse una ragione per bandire TikTok – ha dichiarato al Time un altro ricercatore della Scuola di studi internazionali di Singapore, Muhamad Faizal – «la Cina potrebbe sottolineare come gli Stati uniti abbiano ottenuto dati dai giganti del tech e delle telecomunicazioni per individuare i partecipanti all’assalto al Campidoglio».

A INDEBOLIRE la posizione di Yu c’è anche il fatto che la causa depositata a San Francisco contro ByteDance riguarda il suo «licenziamento illegittimo» dalla compagnia. A detta dell’ex responsabile della progettazione, per aver riferito ai suoi superiori di una pratica illegale per la quale venivano saccheggiati i contenuti di altre piattaforme per accrescere il traffico su TikTok. Interpellata dal Wall Street Journal, ByteDance smentisce le accuse di Yu – «Ci opporremo con vigore a ciò che riteniamo essere insinuazioni senza fondamento» – e sostiene che il licenziamento è dovuto alla sospensione «per ragioni di business» del progetto a cui stava lavorando.

I suoi avvocati, di contro, aggiungono che c’è un motivo per cui Yu ha deciso di parlare solo ora: proprio la recente udienza del Ceo di TikTok. Con le sue parole, un «depistaggio».