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Siccità, accordo storico sull’acqua del Colorado

Siccità, accordo storico sull’acqua del ColoradoI segni della siccità a Lake Powell, in Utah, il 15 aprile 2023 – Getty Images

Usa Uno storico accordo raggiunto fra la California e altri sei stati dell’Ovest americano implementerà un piano per conservare le acque del fiume Colorado: -14% dei consumi per tre anni. Poco, forse, ma è la prima volta che il mercato dell'acqua tocca un limite

Pubblicato più di un anno faEdizione del 25 maggio 2023
Luca CeladaLos Angeles

Uno storico accordo raggiunto fra la California e altri sei stati dell’Ovest americano implementerà un piano per conservare le acque del fiume Colorado che da 120 anni hanno alimentato l’ipertrofico sviluppo della regione, fra le più aride del continente.

In base all’accordo, un emendamento all’originale Colorado River Compact del 1922 che suddivideva quote d’acqua del fiume fra Wyoming, Colorado, Nevada, Utah, Arizona, New Mexico e California, i tre stati del bacino inferiore (cioè Arizona, California e Nevada) si sono impegnati a diminuire volontariamente le quote d’acqua utilizzate da 7,5 a 5,5 milioni di acri-piede complessivi. (Un acro-piede, uguale a 1.200 metri cubi, è sufficiente per la fornitura di una tipica famiglia degli Stati uniti per un anno).

La drastica riduzione dei consumi idrici si è resa necessaria a causa del progressivo inaridimento della regione aggravato dal mutamento climatico.

Il cartello con il livello del Lago Mead nel 2021, foto Getty Images

Il nuovo accordo rappresenta una diminuzione complessiva del 14% dei consumi e permetterà di alleggerire sensibilmente i prelievi di acqua dal bacino artificiale di Lake Mead, dietro alla diga Glen Canyon, il lago più grande della nazione, sceso ormai al 30% della capienza. Un livello delle acque così basso che mette a rischio anche la produzione idroelettrica della diga, una delle 15 grandi costruzioni erette lungo quello che era stato il fiume noto ai nativi come “acque rosse,” un corso d’acqua che attraversa alcuni dei paesaggi più spettacolari del Nord America.

Il primo bianco a navigare quelle acque fu John Wesley Powell che nel 1869 guidò nove uomini in lance di legno attraverso il Grand Canyon effettuando il primo rilievo geo idrico. Da subito il fiume divenne designato dal Congresso come risorsa primaria per lo sviluppo dei territori occidentali, sottratti di fresco al Messico e “etnicamente puliti” dei loro abitanti originari.

Seguì, nei primi anni del secolo XX, una mastodontica opera di “bonifica” idrica per cui venne istituito un apposito ente ministeriale, il Bureau of reclamation, preposto all’idrologia. Il sistema di dighe, canali e irrigazione sviluppato in quei decenni costituisce una delle grandi opere di ingegneria ambientale e uno dei paradigmatici esempi di eterogenesi dei fini.

L’irrigazione dei territori desertici del Great Basin, Mojave e Sonora predisponeva forniture d’acqua a 30 milioni di abitanti e irrigava oltre 4 milioni di ettari coltivati che sarebbero giunti a produrre il 60% della verdura e più di un quarto della frutta del paese.

Diventata precondizione di uno sviluppo agro industriale con pochi precedenti, l’acqua sovvenzionata da massicci investimenti federali è stata anche tramutata in commodity finanziaria, fonte di infinte speculazioni, comprese quelle immobiliari sui cui è stato fondato lo sviluppo urbano di città come Los Angeles, Phoenix, San Diego e Las Vegas in una delle regioni dalla più sostenuta crescita – economica e demografica – del paese.

Dietro al dogma della crescita infinita sono state occultate per un secolo le conseguenze sull’ambiente. La disponibilità di acqua è dipesa dalla costruzione di una massiccia infrastruttura di dighe, canali e condutture che tuttavia ha stentato a tenere il passo con la richiesta.

Oggi in quello che è sostanzialmente un deserto, vivono oltre 70 milioni di persone e il territorio trasformato in “paniere” (un mastodontico motore per l’estrazione del plusvalore dalle risorse naturali) subisce effetti come la subsistenza, il cedimento del fondo della Central Valley in California dovuto all’esaurimento delle falde freatiche, pompate senza pietà da grandi operazioni agro industriali.

In molte località agricole il suolo si è oggi abbassato di quasi due metri e l’acqua deve essere consegnata ai cittadini in autobotti. È inoltre giunta al limite del sostenibile la competizione per la risorsa liquida fra città e agricoltura con un concomitante aumento dei prezzi che fanno si che alcuni distretti agricoli guadagnino di più a rivendere i diritti alle proprie forniture di acqua del Colorado alle città sempre più dense ed assetate.

Nella perversa logica del capitale, la stessa scarsità di acqua diventa quindi motivo di ulteriore speculazione sull’acqua trasformata in derivato finanziario scambiato in borsa da banche e fondi di investimento in base alle fluttuazioni in valore (futures).

Una logica che ha prodotto paradossi come i grandi investimenti sauditi in grandi fattorie in Arizona (!) dove la casa di Saud ha acquisito diritti idrici, offerti al maggiore offerente.

Intanto il maestoso Colorado da decenni non giunge più al proprio estuario messicano nella baia di Cortez. Esausto e canalizzato, si estingue in rivoli di sabbia a decine di chilometri dalla costa vicino al confine Usa-Messico, il paese che allo sviluppo del West americano ha dovuto sacrificare quello che era uno dei maggiori ecosistemi salmastri e ripari acquatici delle Americhe.

La foce sabbiosa e quasi inesistente del fiume Colorado in Messico nel mare di Cortez, foto Denver Post via Getty Images

Dopo un secolo di sviluppo senza freni, il riscaldamento atmosferico ha tuttavia reso ineludibili le contraddizioni di un insostenibile utilizzo di mercato delle acque nel deserto.

La regione si trova in una fase di siccità intensa che perdura da 23 anni e ha causato razionamenti e la diminuzione del 20% della portata del Colorado. La stima scientifica è che almeno la metà del calo sia attribuibile a cause climatiche.

Di pari passo con la desertificazione, le temperature medie negli stati da cui nasce il fiume sono salite di tre gradi fahrenheit dal 1970. Ogni successivo grado centigrado di aumento medio provocherebbe un’ulteriore diminuzione del 9% del volume fluviale.

Se non vi saranno cambiamenti, insomma, il destino del Colorado è segnato, né bastano a incidere in modo significativo su questa traiettoria anni di anomala precipitazione come quello attuale, in cui il carico di neve delle montagne nel bacino idrico è stato il 147% della media.

L’accordo, pur criticato da organizzazioni ambientaliste come la Living Rivers per non essere abbastanza esauriente e lungimirante, segna tuttavia un cambio di marcia. Se non una volontà di decrescita, quantomeno il tentativo di visualizzare una maggiore sostenibilità.

“Pescatori” messicani alla foce del Colorado nello stato di Sonora, foto Washington Post via Getty Images

L’operazione è incentivata da contributi federali per risarcire gli agricoltori a lasciare incolti un maggior numero di campi, utilizzando fondi del piano infrastruttura e conversione ecologica del bilancio Biden.

Rispetto al vangelo unico della crescita infinita, potrebbe segnare l’inizio di una politica idrologica e ambientale più virtuosa. E un modello per il tipo di iniziativa volta a modificare il modello economico produttivo basato sulla logica “estrattiva” dei profitti, a scapito delle risorse e del territorio, la cui esigenza è resa ogni giorno più lampante dalle catastrofi sotto gli occhi di tutti.

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