Il default del Green new deal
Il fallimento dei summit globali ormai ben descrive l’inadempienza di fronte al disastro ambientale.
A questa inadempienza si è aggiunta una progressiva freddezza dei paesi europei sul tema. Ora la rivincita di Donald Trump sembra essere la pietra tombale dell’impegno ecologista dall’alto, quello delle classi dirigenti. Una prospettiva nata dopo decenni di crescente pressione dal basso che aveva portato a percepire il disastro ecologico non più come un problema da anime belle, ma come tema chiave delle scelte globali. Un’assunzione di responsabilità sistemica da cui erano nati nuovi problemi e nuove contraddizioni. Come spesso accade, le giuste istanze provenienti dalla società nel loro istituzionalizzarsi cambiano di segno. L’opzione verde è stata colta come una necessità a patto di divenire una nuova occasione per fare profitti.
Qualcuno ha invocato un approccio keynesiano, ma anche un’impostazione di questo tipo è stata limitata dal rigore di bilancio sempre sullo sfondo, in particolare in Europa, e più in generale da una strategia orientata dallo Stato verso il lato dell’offerta. Le risorse dovevano aiutare le imprese a produrre prodotti ecocompatibili, rendendoli progressivamente obbligatori, ma senza porsi sul lato della domanda. Se sei povero, l’auto elettrica te la dovrai comprare ugualmente, al massimo con qualche incentivo immediatamente neutralizzato dall’aumento di costi e prezzi. Gli indiscutibili meccanismi di mercato e di accumulazione facevano da sfondo a qualsiasi ipotesi di funzionamento del cosiddetto Green New Deal.
Come scriveva già nel 1992 André Gorz, la presa in capo agli Stati (e aggiungiamo noi alle imprese) dei vincoli ecologici si sarebbe tradotta in una molteplicità di divieti, regolamentazioni, tassazioni, sovvenzioni e sanzioni che avrebbero avuto l’effetto di rafforzare «l’eteroregolazione della società», il cui funzionamento dovrà diventare «più o meno ecocompatibile indipendentemente dall’intenzione propria degli attori sociali». Ecco ciò che si è affermato a trent’anni di distanza attraverso un programma tecnocratico gestito in una prospettiva di compatibilità con la tutela del profitto e di alcuni meccanismi di mercato.
Ecco le ragioni di una crescente ostilità delle classi popolari e più povere, quelle che per prime avevano una comprensibile sensazione di pagare il principale prezzo della svolta. L’impressione crescente era che la scelta green fosse un nuovo espediente per generare profitti. Un sentimento di ostilità che ha preso varie strade, dalle giuste critiche ai limiti del Green New Deal fino al negazionismo.
A rafforzare tale sentimento il fatto che le varie opzioni prese in carico non fossero risolutive fino in fondo. Elettrico o idrogeno, ad esempio? Quali i costi ambientali di tale passaggio? Si è ridotto il problema ecologico alla ricerca di soluzioni tecniche che consentissero di mantenere tutti gli altri fattori economici e produttivi inalterati. Un esempio? Meglio l’auto elettrica dello sviluppo del trasporto pubblico. Soluzione chiaramente inefficace, ma indolore per il mercato. Il malessere popolare si è saldato con quello di quei settori capitalistici che avevano tutto da guadagnare da un rigetto del Green New Deal. Il vero tema che emerge è la profonda difficoltà del capitalismo di adattare i suoi meccanismi di accumulazione rendendoli compatibili agli obiettivi di una sempre più urgente transizione energetica e produttiva. La crescita bulimica e la fame di profitto sembrano ostacoli insormontabili rispetto a qualsiasi svolta. Tra le molte nubi all’orizzonte l’unico scorcio di luce è la fine di un equivoco: l’impresa torna a inquinare, il progetto ecologista non arriva più dall’alto, dunque può tornare ad essere architrave di un’idea di trasformazione dal basso. Un progetto egemonico se abbinato alla giustizia sociale, che la sinistra ancora non riesce a pensare e rendere credibile.
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