Internazionale

Petrostati e lobbisti, i dubbi degli scienziati sulle ultime Cop

Manifestazione a Baku manifestazione per l’eliminazione dei combustibili fossiliManifestazione a Baku per l’eliminazione dei combustibili fossili – Ap

Previsioni del tempo A Baku sono 1.773 gli accreditati che spingono per petrolio e gas, più dei delegati dei dieci paesi vulnerabili. Lettera-appello all’Onu

Pubblicato circa un'ora faEdizione del 16 novembre 2024

Che per le Cop sia ora di cambiare è senso comune, tra gli addetti ai lavori. Quando a dirlo sono alcune delle persone che il meccanismo Cop hanno contribuito a crearlo, però, l’impatto è diverso. In una lettera pubblicata ieri, un corposo gruppo di personalità legate al tema del riscaldamento globale ha scritto che le Conferenze delle Parti «non sono più adatte a raggiungere i loro obiettivi» e, per questo, vanno riformate.

Le Conferenze delle Parti sul clima, o Cop, sono gli incontri negoziali annuali sul contrasto alla crisi climatica organizzati dalle Nazioni Unite. Nascono nel 1994 e sono oggi alla loro ventinovesima edizione, in corso in questi giorni a Baku, Azerbaigian. Secondo i firmatari della lettera, i punti cruciali sono tre. Primo, la sede ospitante – che esprime anche la presidenza – dovrebbe dimostrare «un alto livello di ambizione». Ovvero, basta summit nei petrostati come Emirati Arabi Uniti e Azerbaigian. Secondo, l’influenza della lobby fossile deve essere quantomeno contenuta.

Quest’anno, secondo la campagna Kick Big Polluters Out, i lobbisti dell’oil&gas accreditati sono almeno 1.773: più dei delegati dei dieci paesi più vulnerabili, sommati. Tra i partecipanti anche l’amministratore delegato di Eni Claudio Descalzi, che potrà entrare al summit come «ospite della presidenza». Il terzo punto chiave della lettera è conseguente: perché siano democratiche, le Cop devono tenersi più spesso e, soprattutto, dare più spazio alle nazioni cosiddette in via di sviluppo.

SECONDO IL GUARDIAN, che ha dato notizia del testo indirizzato alle Nazioni Unite, gli autori sono di primo livello. Tra loro figurano l’ex segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon, l’ex presidente dell’Unfccc Christiana Figueres, l’ex alta commissaria per i rifugiati ed ex-presidente irlandese Mary Robinson, lo scienziato-star Johan Rockström. Un parterre eccellente che però, difficilmente, porterà a riforme nell’immediato futuro. Per modificare la convenzione che regola i negoziati servirebbe un consenso arduo da immaginare.

E MENTRE DA FUORI si riflette su come cambiare, da dentro il lavorìo diplomatico procede – a fatica. Gli inviati dei governi di tutto il mondo devono accordarsi sul New Collective Quantified Goal, flussi finanziari che dal mondo industrializzato andranno ad aiutare la transizione nel cosiddetto Sud globale. Uno studio indipendente ma commissionato dalle presidenze di turno delle Cop stima il fabbisogno dei paesi cosiddetti in via di sviluppo in 1.000 miliardi annui a partire dal 2030, e 1.300 miliardi annui a partire dal 2035. Esattamente ciò che volevano sentire i governi africani, latinoamericani e asiatici, che hanno subito fatto proprie queste cifre.

La parte del leone, nello studio, la fa la finanza privata. Ma una parte significativa dovrebbe venire dal pubblico – e i paesi più vulnerabili (e poveri) insistono su questa componente per almeno due ragioni.

Primo, solo dagli Stati si può sperare di ottenere finanziamenti a fondo perduto, senza essere costretti a scegliere tra debito e transizione. Secondo, solo gli Stati possono finanziare progetti, tipicamente di adattamento, che pur essendo indispensabili per le comunità locali non portano nessun ritorno economico.

I grandi fondi di Wall Street possono volentieri finanziare parchi eolici o solari in Africa, specie se con cospicue garanzie pubbliche, ma non metteranno mai i loro soldi su progetti di riforestazione o contrasto al dissesto idrogeologico. In ogni caso, l’accordo è lontano: l’ultima bozza disponibile è di ben 25 pagine, sostanzialmente un lungo elenco di tutte le ipotesi in campo.

CERTO NON AIUTA il negoziato lo strano comportamento dei padroni di casa azeri, che hanno iniziato una serie di singolar tenzoni con le nazioni europee. Il vero centro dell’ostilità è la Francia, rea di appoggiare la rivale Armenia nel decennale conflitto per il controllo del Nagorno-Karabakh.

Il presidente azero Ilham Aliyev ha ricordato nel suo discorso di due giorni fa le popolazioni delle «colonie francesi d’oltremare brutalmente represse dal regime». Aliyev se l’è presa anche con i Paesi Bassi, anche loro ancora titolari di territori d’oltremare, e il Parlamento europeo «che condivide con Macron la responsabilità per l’uccisione di civili innocenti».

Da lì le proteste sdegnate delle autorità comunitarie, mentre la ministra francese della transizione, Pannier-Runacher, ha detto al Senato che a Baku lei non andrà proprio. Una defezione che pesa: sono i ministri, alla fine, a dare luce verde per gli impegni finanziari.

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