Berlinale 2023, dopo due anni di pandemia con un’edizione in streaming e la successiva in forma ridotta, il festival si impone nuovamente nella capitale tedesca lanciando la sua scommessa di un ritorno in sala – a cui allude anche l’immagine grafica – che è anche quella della direzione Chatrian-Rissenbeek giunta al terzo anno del suo mandato. La fine delle restrizioni significa soprattutto la riapertura del mercato del film, l’Efm, (compresi i distributori asiatici anche se non ancora coi numeri pre-pandemici) il principale appuntamento europeo per l’industria della stagione, con un sold out deciso di alberghi (e prezzi alle stelle), ristoranti (alcuni prenotabili solo a partire da metà della prossima settimana), e tutti i luoghi intorno a Potsdamer Platz.

NON SOLO addetti ai lavori però. Anche il pubblico non ha deluso le aspettative, i film del primo fine settimana sono tutti esauriti, complice un sole e un tepore del climate change (ci si può sedere persino all’aperto) che spinge a uscire. Il primo risultato sembra dichiarare la scommessa del festival vinta – e al di là della qualità complessiva dei film – affermando quel bisogno di cinema che non finirà mai come ha detto la presidente della giuria Kristen Stewart, bellissima in versione bruna, nell’incontro coi giornalisti di fine mattina. L’attrice e regista – ha da poco finito il suo film d’esordio, The Chronology of Water – ha poi aggiunto: «Fa parte dei nostri bisogni raccontarci storie e al di là del box office».
L’apertura ieri sera affidata a Rebecca Miller, fuori concorso (è in Berlinale Gala Special) con She Came to Me, è stata nel segno dell’Ucraina: alla presenza dell’ambasciatore ucraino in Germania, sul palco Sean Penn ha introdotto il presidente Zelensky, in collegamento streaming – come già accaduto al festival di Cannes e alla Mostra di Venezia, solo Sanremo ha dato il via al ridicolo (e servile) strepitio di veti incrociati – a ribadire una vicinanza culturale e politica della Germania a quel Paese in guerra.

Volodymyr Zelensky
Il muro di Berlino divideva il mondo libero dal totalitarismo, il progresso dalle rovine. Oggi i russi vogliono costruire quello stesso muro in UcrainaNel suo discorso, accolto da lunghi applausi, Zelensky ha evocato la storica divisione della Germania e di Berlino in particolare: «Il cinema può rompere muri, veri e ideologici. Parlare qui oggi per me è fortemente simbolico perché il muro divideva il mondo libero dal totalitarismo, il progresso dalle rovine, la civilizzazione dalla tirannia. Non era un confine tra due nazioni ma tra due visioni del mondo. Oggi i russi vogliono costruire quello stesso muro in Ucraina». Zelensky ha quindi ricordato le atrocità di questo anno di guerra, rivolgendosi poi direttamente al mondo del cinema: «Il cinema può essere fuori dalla politica? Oggi questa domanda è estremamente rilevante. Io non credo sia possibile quando c’è una politica di guerra totale. La cultura sceglie da che parte stare, se parlare del male o rimanere silente e aiutare il male. Il cinema non può cambiare il mondo ma può ispirare persone che possono farlo. La Berlinale ha fatto la sua scelta, ne siamo grati perché non è una formalità, è giustizia».
E l’Ucraina è al centro di molti film nelle diverse sezioni così come l’Iran, anch’esso Paese in lotta da diversi mesi contro la violenza del proprio regime, a ribadire la vocazione tradizionalmente «politica» della Berlinale che negli anni è stata sempre molto attenta a accogliere e dare voce ai movimenti di protesta del mondo.

«SHE CAME TO ME» è il ritorno di Miller, che ne è anche sceneggiatrice, con un cast di star per il tappeto rosso (da Marisa Tomei a Anne Hathaway) dopo un lungo silenzio – l’ultimo film, Maggie’s Plan, con Greta Gerwig, presentato a Berlino in Panorama, è del 2015 – la cui ragione sta forse in quanto detto dalla regista in conferenza stampa, ovvero che «fare film indipendenti è diventato sempre più complicato».

La redazione consiglia:
Berlinale 73, sguardi e detour di una selezione aperta alle sfideE proprio di una crisi creativa parla il film, nella figura di Steven (Peter Dinklage), compositore contemporaneo, che dopo molti successi è bloccato: tutti si aspettano una nuova opera ma lui va nel panico e non ha alcuna idea. La solerte e perfettissima moglie psicanalista di famiglia ebrea e cattolica (Hathaway), con figlio avuto giovanissima da fidanzato african american (che mai vediamo però) lo spinge a uscire di casa perché solo fuori si trova materia di ispirazione. E ha ragione. In una passeggiata per New York col cane, l’uomo conosce una capitana di nave, Katrina, che non vive immersa nello zucchero – tipo Sweet Movie – ma è accusata di essere ninfomane, o collezionista seriale di uomini, che insegue e infatti uno che l’ha anche denunciata – è la sempre splendida Tomei. In che modo andrà tra i due non è difficile immaginarlo, e da lì iniziano una serie di altre vicende più o meno tortuose che intrecciano (e stravolgono) le esistenze dei personaggi con al centro l’amore e il sesso, le vere spinte per ogni cosa, creatività o scelte di vita.

COME IL SUO protagonista, Miller dissemina qualcosa di sé e delle sue esperienze nella scrittura – senza per questo fare dell’autobiografia ma nell’idea che la vita nutre l’esperienza artistica, costruendo a sua volta il film sulla struttura di un’opera. A partire da una domanda in particolare: come funziona oggi l’invenzione artistica a fronte dei tanti limiti che sono posti dal presente? E tra citazioni di immaginario mutate nei tempi – una su tutte, quando la madre cameriera a casa del fidanzatino della figlia se la trova davanti mentre pulisce, solo che a differenza di un melò sirkiano seppure con imbarazzo le due si salutano – sguardi all’America di oggi, differenze di classe, reazionari razzisti intellettuali frustrati, sensi di colpa, padri e figli e le loro cesure, mette in scena il suo romance del quale però sembra perdere il controllo di fronte a quelle stesse «insidie» su cui sembra voler ironizzare. Sarà che manca l’ironia o la distanza giusta o forse entrambe ma alla fine tutto ciò somiglia più a un pastiche di luoghi comuni, a tratti persino irritanti e melensi, nel quale neppure ci si diverte un po’. Peccato.