Le scarne righe di sinossi sui materiali stampa dicono così: «Quattro giovani amici di vecchia data e nuovi, in una casa di vacanze sul mar Baltico. L’estate è torrida, secca come tante altre negli ultimi anni. Le foreste intorno cominciano a bruciare e così i loro sentimenti: desiderio, felicità, amore ma anche risentimento, gelosia, tensione…». La «storia» però non è mai indicativa dei film di Christian Petzold, il talentuoso regista tedesco che si è affermato, sin dai suoi esordi, come uno degli sguardi migliori della contemporaneità.

Era il Duemila quando Petzold realizzava Die Innere Sicherheit, aprendo la strada a una «nuova generazione» di autori in Germania, non una onda ma una serie di poetiche singolari che assumevano, provando a superarla, l’eredità del passato. Il film di Petzold si confrontava con i «fantasmi» della lotta armata dal punto di vista di una figlia adolescente, la giovane protagonista la cui esistenza è segnata dagli enigmi che spingono i genitori a vagare con ostinazione senza fermarsi in nessun luogo. Rispetto all’esperienza artistica precedente Petzold è l’autore che più cerca di raccoglierne le sfide traducendole nel proprio tempo, forse perché allievo di Harun Farocki, che è stato sceneggiatore di molti dei suoi film dall’esordio fino alla morte, nel 2014.

Attrazioni
Da Farocki, sperimentatore infaticabile di forme, Petzold ha imparato l’allenamento delle immagini in una continua invenzione formale della realtà, capace di unire le geometrie del suo maestro ai generi come melò, fantastico, thriller, fiabesco. Undine – di cui qui ritrova l’attrice, Paula Beer – era una storia d’amore le cui tracce si disseminavano nella storia e nei conflitti del presente, tra le architetture berlinesi e nella fine della natura.
Il regista parla di Afire come un film «sull’attrazione e l’amore e la fisicità dei corpi», quasi una resistenza alle smaterializzazioni odierne nel virtuale dentro l’elemento del fuoco dopo gli universi acquatici di Undine. Di certo è uno dei titoli più attesi – e da tappeto rosso specie per il pubblico tedesco – di questa Berlinale numero 73, la prima libera dalle costrizioni della pandemia dopo un’edizione in streaming, e una «ridotta» lo scorso anno con soli sei giorni con un controllo capillare (Covid test quotidiani) agli ospiti internazionali, e le sale dimezzate in capienza. Per la direzione di Carlo Chatrian e Mariette Rissenbeek è anche una verifica a un anno dalla scadenza del loro mandato.

C’è chi fa notare, non senza accenti critici, che la selezione è un po’ «sottotono», troppo cinema indipendente, poche star – concentrate nella sezione di serie televisive – pochi grossi titoli dell’industria hollywoodiana. È anche vero che specie nelle sue sezioni «parallele» e più indipendenti da quelle ufficiali, almeno fino a un certo punto, la Berlinale è stata un prezioso indicatore di piste e tendenze, spesso ancora da scoprire; ed è vero pure che il concorso rischia così di essere molto vicino a questo – specie alla seconda competizione, Encounters inaugurata dalla direzione attuale.

Sul cinema nazionale il festival appare però solido. In gara oltre a Petzold – che è anche uno dei film più attesi della stagione – troviamo Margarethe Von Trotta, autrice della Neue Welle tedesca, alle prese con l’iconica figura di Ingeborg Bachmann – raccontata magnificamente da Ruth Beckermann in The Dreamed Ones (2016) a partire dal carteggio amoroso tra Bachmann e Paul Celan.

Ingeborg Bachmann – Journey into the Desert ripercorre la vita della scrittrice austriaca tra Berlino, Zurigo, Roma, i viaggi in Egitto e i suoi scritti cercandone gli intrecci con la sua esistenza. A dare vita a Bachmann è Vicky Krieps. Della stessa generazione di Petzold è invece Angela Schanelec, regista di ellissi emozionali e cartografie complesse della storia, che corre per l’orso d’oro con Music, il mito di Edipo frammentato nei detour della storia.

Ritratti
E l’Italia? La selezione lancia una scommessa insieme a nomi più noti come Mario Martone con Laggiù qualcuno mi ama, il suo ritratto di Massimo Troisi. Fuori concorso, Andrea Di Stefano con L’ultima notte di amore, interpretato da Favino; il concorso punta invece su un esordio che ha potenzialità per sorprendere: Giacomo Abbruzzese e il suo Disco Boy – in sala con Lucky Red.

Protagonista Franz Rogowski, il film è la storia di un viaggio fra l’Europa e l’Africa, seguendo le vite di un uomo che arriva a Parigi per arruolarsi nella Legione straniera e combattere, e di un ragazzo che, nel Delta del Niger, lotta contro le multinazionali per salvare dalla fine il suo villaggio.

Abbruzzese, che è nato a Taranto e vive tra Parigi e Madrid, si è diplomato alla Fresnoy, in Francia, ha realizzato numerosi cortometraggi e con America, il suo documentario ispirato alla vicenda del nonno, partito per l’America negli anni Sessanta e mai tornato, ha ottenuto una nomination ai César.

Le mura di Bergamo è invece il ritorno di Stefano Savona, un lavoro lungo e con una dimensione collettiva che prova a addentrarsi nel trauma della pandemia lavorando nel luogo, che in Italia e non solo, ne è divenuta un po’ il simbolo – aggrovigliando emozioni, inadeguatezza, politiche devastanti accumulate negli anni, tragica sorpresa. Dice Savona: «Tre anni fa con un gruppo di giovani registi che erano stati miei studenti alla scuola di documentario del Csc Palermo abbiamo attraversato un’Italia deserta per arrivare a Bergamo nel mezzo di una crisi mai vista… Per altri due anni siamo tornati a Bergamo per raccontare il rituale collettivo di elaborazione del lutto e di costruzione della memoria che avevamo visto nascere».

Un’altra (bella) sorpresa può arrivare da Antonio Bigini, in Generation con La strategia dei metalli (premiato agli Atelier dell’Mfn – Milano Film Network), un bimbo che negli anni Settanta italiani di un piccolo paese asfissiante – reso ancora più opprimente dal padre autoritario – scopre di avere poteri speciali. Non solo scienza ma qualcosa di più ineffabile.