La storia di Pepe inizia con le immagini alla tv della morte di Pablo Escobar, sono in tanti a piangerlo nonostante il regime di terrore del suo potere criminale e miliardario col cartello di narcotraffico di cui era sovrano incontrastato, la cui semplice filosofia recitava: argento o piombo. In realtà comincia prima, in Sudafrica, quando i trafficanti lo portano via insieme a molto altro, ricchezze e opere d’arte pregiate, nei commerci predatori che spogliano il continente. Lo stesso dove un gruppo di turisti tedeschi, con in mano una guida del 1978, si fa dire dall’operator tour, un tizio vestito da safari, che le persone lì sono tutte «dei primitivi e dei selvaggi», che si deve stare attenti perché «hanno sempre una richiesta». Intanto l’autista africano spiega che ogni animale insegna qualcosa agli uomini, ma il gruppo ride e si limita a fotografare con voracità. E Pepe? È sua la voce che sentiamo dalle prime inquadrature, profonda, gutturale, parla una lingua antica. Di sé da quando è stato sradicato dalla sua terra può dire con certezza soltanto che è morto, chiuso nelle casse è arrivato in un luogo di cui non sa nulla.

CHI È DUNQUE Pepe? Un ippopotamo, «animali selvaggi che conoscono acqua e terra», che non attaccano tranne se li si provoca, e allora sono fortissimi e capaci di spezzare una barca a metà. A un certo punto è finito in America latina, suo padre era un sovrano giusto poi è iniziata la guerra di potere, la stessa esplosa con la morte di Pablito Escobar – che degli ippopotami era il proprietario. Pepe è diretto da Nelson Carlos de los Santos Arias, dominicano, ha studiato a Buenos Aires, Edimburgo e in California, ed è oggi uno degli autori più significativi del cinema indipendente e di ricerca. Con il precedente Cocote (2017) aveva vinto la sezione sperimentale Sign of Life del festival di Locarno, e Santa Teresa &Otras Historias (2015) era stato premiato al FID Marseille. Nelle note di regia lo racconta così: «Mi piace lavorare sul fantastico perché ci fa creare mondi impossibili cambiando radicalmente l’idea che le culture si fondano sulla base di narrazioni del passato ripetute per affermare gli interessi di una singola élite. L’utopia permette invece una critica al potere nell’altrove, in una società che ancora non esiste».

Una scena da “Pepe”

Il film di Nelson Carlos de los Santos Arias, premio per la regia, somiglia molto a quello di Mati Diop, Dahomey, Orso d’oro della 74a edizione. Entrambi parlano di colonialismo, di violenza, di una cancellazione culturale, economica, sociale contro il continente africano, la voce dell’ippopotamo somiglia un po’ a quella della statua di legno e di ferro del Dahomey saccheggiato dagli eserciti francesi nell’Ottocento, e restituita alla sua terra solo adesso, per tornare in quella che è oggi la Repubblica del Benin alla quale Diop affida una parte del racconto.

Nella sua biografia, di una narrazione dal punto di vista animale gli uomini si pongono ai margini del quadro, e questa quasi biografia di un ippopotamo intreccia leggenda e realtà, ispirandosi a un fatto accaduto in Colombia. Pepe si allontana nel fiume, prova a vivere in disparte per essere ammazzato dall’esercito colombiano dopo per avere aggredito gli uomini distruggendo le imbarcazioni. È solo questo? O ci sono altre ragioni? La scommessa è anche la nostra, di cercare in filigrana ciò che unisce due realtà così lontane, la pratica del potere e della sua sopraffazione. Santos Arias non parla mai direttamente del narcotraffico, il reale ha i contorni di leggenda, si alterna a una quotidianetà più concreta, la vita dei villaggi e dei pescatori della regione a 200 km da Mendellina – dove gli animali ormai liberi dopo la morte di Escobar hanno trovato un ecosistema nel fiume. Eppure le loro lotte dicono molto, tracciano un pensiero, come la sorpresa degli abitanti di fronte a questo animale enorme e sconosciuto.

Quella dimensione fantastica di cui parla Arias è la stessa che sceglie Mati Diop, qui e in altri suoi film, mescolandola alla realtà del mondo. Anzi è grazie al fantastico che il reale trova una sua forma politica che investe l’immagine e gli immaginari attraverso i soggetti che affronta. Entrambi, seppure in modo diverso, sanno come mescolare i piani narrativi, seminare piste imprevedibili, lavorare dentro un’astrazione, seguendo personaggi che sono fantasmatici ma portano dentro di sé una storia oltre il tempo.

LA RICERCA di una forma capace di raccontare il mondo è stata una delle domande poste, un cinema politico e di libertà formale, forse anche contro le gabbie preconfezionate del cinema-streaming, nelle opere di questa Berlinale, l’ultima diretta da Carlo Chatrian e Mariette Rissenbeek – entrambi salutati con calore come il gruppo di lavoro tutto, da registe e registi – attraversata dal tempo presente non solo nei film ma nelle molte discussioni che l’hanno preceduta e accompagnata, e che sono tornate anche sul palco della premiazione, e appunto nel palmarés. Molti giurati portavano il cartello «Cessate il fuoco ora» – riferito ovviamente agli attacchi israeliani a Gaza – e qualcuno dei cineasti come Ben Russell è arrivato su Red carpet con la kefiah. Insieme a Guillame Cailleau, Russell è l’autore di Direct action, sulla ZAD di Notre Dames de Landes, il movimento di resistenza contro la costruzione dell’aeroporto di Nantes, laboratorio, attivo (seppure colpito da espulsioni e sgomberi) di un altro modello di società, che ha messo al centro le battaglie ecologiche e l’opposizione alla proprietà privata per una gestione collettiva del territorio – premio della sezione Encounters e menzione speciale tra i premi al documentario. Così l’opera prima vincitrice, Cu Li Never Cry, presentato al Panorama, del giovane regista vietnamita Pham Ngoc Lan, che nel suo bianco e nero di esistenze fra passato e presente, con al centro la magnifica protagonista, intreccia la storia del Vietnam e le sue fratture che arrivano sino a oggi.

STATEMENT assolutamente politico il premio dei giurati per il documentario Verena Paravel, Thomas Heise, Abbas Fadhel, a No Other Land, firmato da un collettivo di artisti e attivisti palestinesi e israeliani. Basel Adra è un giovane attivista palestinese di Masafer Yatta, nella West Bank, che documenta lo sradicamento dal suo villaggio a opera dell’esercito israeliano che demolisce le case cacciando gli abitanti. A un certo punto incontra Yuval Araham, un giornalista israeliano con cui inizia a lavorare. «Non si può negare che l’occupazione militare israeliana sia illegale. Il mondo è in fiamme e noi siamo ciechi, dobbiamo invece guardare ciò che accade» ha detto Paravel alla consegna del premio. Se poi No Other Land era il doc migliore non importa: nella Germania che almeno dentro al Palast della Berlinale e in diretta sembra voler reagire a censura e silenzio imposto dal governo, premiarlo è un gesto politico molto importante. Quello di cui oggi di fronte a silenzi e repressione c’è sempre più bisogno.