Soda Kazuhiro torna alla Berlinale, nella sezione Forum, a quattro anni dal precedente Zero, presentato a Berlino nel 2020, nei giorni dei primi casi di coronavirus nel Paese e a ridosso dello scatenarsi della pandemia in tutto il mondo.

Gokogu no Neko (Cats of Gokogu Shrine) letteralmente «I gatti del santuario Gokogu», è l’observational film numero 10, cioè il decimo film della serie che Soda ha aperto nel 2007 con Campaign, e che si fonda sul rispetto di un decalogo, dieci regole che costruiscono una disciplina autoimposta necessaria per la costruzione e la salvaguardia di una autentica libertà per il proprio lavoro di cineasta: nessuna ricerca; nessun incontro preventivo con i protagonisti; nessuna sceneggiatura; girare da soli; girare il più a lungo possibile; lavorare su aree circoscritte in modo approfondito; non fissare temi o scopi prima di iniziare il montaggio; niente voce narrante, didascalie, musica; usare inquadrature lunghe; pagare di tasca propria per la produzione.

A più di quindici anni dall’inizio di questo rigoroso percorso di impegno, studio, ricerca su di sé e sul senso del proprio lavoro – arricchito e orientato dalla pratica meditativa orientale -, Soda mostra nel suo nuovo cimento la maturazione di un approccio autenticamente, radicalmente, e profondamente indipendente che punta in una direzione perfettamente opposta non solo rispetto al cinema documentario «commerciale» di produzione televisiva e paratelevisiva, ma ormai anche della marea montante del cinema di non fiction, spesso d’autore e «di creazione» o «sperimentale», che per essere prodotto si addomestica e si piega alle trafile burocratiche, al tour delle sezioni Industry, dei mercati, dei pitching, della compilazione di dettagliati progetti, corposi dossier, e che più in generale acconsente all’obbligo non solo di essere frutto di una intensa e spesso faticosa fase di scrittura, ma ancor più di esser realizzato come mera messa in opera di una ampia e dettagliata previsione totale.

Un approccio che insomma si propone per statuto di fare cinema in modo diverso, scegliendo di procedere adottando come regola soluzioni che altri considerano errori. Soda Kazuhiro, che fin dalle sue origini ha scelto di produrre i suoi film come opposizione ai tabù e alle dittature del senso comune, della produzione in serie, del trucco, del virtuosismo autistico e della facile scorciatoia, inizia a girare senza sapere mai se quel che gira diventerà un film oppure no, meno che mai sapendo cosa racconterà e in che modo. Gira pochi giorni o molti mesi, dedicando un tempo per molti semplicemente proibito alla revisione del materiale accumulato e al successivo montaggio di numerosi abbozzi che precedono di solito anche di mesi la versione finale del film finito.

Si concentra su situazioni, luoghi, persone apparentemente non interessanti, si occupa di argomenti sconvenienti per la società giapponese e spesso poco graditi anche per il resto del mondo (come la morte o la malattia mentale). Soprattutto rinuncia al potere dell’autore e di chi sceglie il punto di vista e orienta l’obiettivo di una cinepresa, costruendo complessi e organici testi cinematografici che non costringono lo spettatore con ammiccamenti a subire e seguire teoremi geometricamente esposti, ma lo invitano a una partecipazione attiva, una osservazione che scopra e ricrei la materia che lui ha per primo scelto e montato.

Il santuario di Gokogu, la cui origine si perde nel tempo, domina dall’alto Ushimado, il piccolo centro sul mare nel quale Soda ha girato ormai diversi dei suoi film e dove, dopo più di venticinque anni a New York, ha scelto di trasferirsi, tornando nel suo Giappone abbandonato per andare a studiare e fare il cinema in America all’inizio degli anni Novanta. Il suo nuovo film compone un diario poetico che narra le vicende dei gatti che vivono intorno al santuario e degli esseri umani che se si prendono cura d loro e di quel luogo sacro.

«Percorrendo in su e in giù la scala che collega il piano della città al livello del mare con la collina del santuario, esseri umani e animali (gatti) non fanno che passare di continuo dal piano terreno al piano celeste, dal piano materiale al piano spirituale, dal piano concreto al piano simbolico». Tra le divinità alle quali il santuario è dedicato, una è protettrice della fertilità. «Il fatto che tutto intorno si catturino gatti per condurli alla sterilizzazione mi è sembrata a un certo punto la chiusura perfettamente paradossale di un cerchio».

I gatti sono diventati, nel tempo, una sorta di firma, una figura che ricorre sempre nei film di Soda, magari anche solo per pochi minuti, in modo discreto. Un animale dal quale Soda è sempre stato affascinato – molto oltre il ruolo simbolico che occupa nella tradizione nipponica – e al quale ha iniziato a rivolgere costantemente lo sguardo per questa semplice ragione. Intorno alla comunità di felini randagi che abitano le strade di Ushimado e che si radunano intorno al santuario Soda ha raccolto il suo sguardo iniziando una lunga osservazione che dopo anni di lavoro ha trovato una sua forma.

Racconto, trasfigurazione, riflessione anche qui come in tutti i precedenti compaiono intrecciati strettamente e implicitamente in un’unica trama audiovisiva. Tornano l’interesse per le dinamiche che sottendono una comunità – quelle degli esseri umani come quelle dei gatti – il bisogno di guardare alla morte per interrogare la vita, l’interesse accorato per la necessità di ricevere e dare cura tra esseri viventi, più di tutto la passione per una contemplazione umilmente aperta allo stupore della realtà. E tuttavia quel che si potrebbe scambiare per una vaga fede nello splendore del vero nasconde un metodo rigoroso di attesa, registrazione e studio che tratta il reale come un materiale amorfo ma non privo di senso, nel quale solo il lavorio di uno sguardo libero può riconoscere una forma, può scolpire un racconto.

Soda – sempre più sensibilmente presente nei suoi film da quel primo Mental che nel 2008 lo spinse a mettere in crisi il modello puramente wisemaniano dell’osservatore invisibile – in uno degli scambi con le figure umane che popolano il suo nuovo film – e che oltre a rispondere alle sue domande spesso lo interrogano – dice «sto girando un film da un punto fisso d’osservazione». Come in altri dei suoi observational film e ancora oltre, qui Soda prima che un punto di vista – inevitabilmente personale e soggettivo, sempre più apertamente incarnato – seleziona dei luoghi topici che diventano stazioni d’osservazione e al contempo definiscono un orizzonte ideale: uno dei vincoli che servono al cineasta per liberarsi dalla schiavitù del cliché, dalla tentazione della presunzione dell’autore, dalla condanna alla ripetizione dell’identico.

Un approccio che attraverso una scelta forte di debolezza costruisce la forza incerta della nitidezza: come in una costellazione di apparizioni, i film di Soda sono sempre più vistosamente costruiti come accumuli di annotazioni cinematografiche montati intorno a scene madri, in trine sottili e impalpabili di relazioni semantiche, traiettorie poetiche.

I dieci film fin qui inanellati nella serie compongono un ritratto in movimento, un profilo dotato di uno spirito che registra e rappresenta il Giappone contemporaneo osservandone zone marginali. Un racconto che si sviluppa per tappe illuminando zone d’ombra (la politica, la cura della malattia mentale, la gestione dei malati e degli invalidi, il lavoro e il rapporto con lo straniero), facendo affiorare figure in via di sparizione (i vecchi che sempre occupano il centro dello schermo), e offrendo all’ascolto dello spettatore voci altrimenti inudibili. Gokogu no Neko segna un culmine temporaneo, il punto più alto di uno sguardo che seguiterà a cercare ogni volta un modo nuovo d’imparare daccapo a posarsi sul mondo.