Diciassette anni e un’ombra da cui fuggire: Quell’estate con Irène, l’opera seconda di Carlo Sironi che arriva in sala dopo il passaggio alla Berlinale 77 (concorso Generation), è un frammento di vita adolescenziale sospesa sul tempo a parte di due ragazze.

Siamo nel 1997, Clara (Camilla Brandenburg, lieve come sabbia, dal cast di SKAM Italia) è malinconica, pallida «come una baronessa inglese», le dice Irène, che invece è francese e ha la presenza incisiva di Noée Abita, impostasi in Francia con Ava e Slalom.

Le due condividono la gita al mare organizzata dall’Ospedale oncologico che le ha in cura e la fuga verso le Egadi per una vacanza tutta loro a Favignana: la spiaggia, le grotte, la solitudine interrotta dall’incontro con un gruppo di ragazzi del posto. E, per Clara, un possibile amore che ha la presenza dolcemente aliena di Claudio Segaluscio, già complice del tempo a parte raccontato da Sironi nel suo film d’esordio, Sole.

Sin dal titolo, «Quell’estate con Irène» è un film che si pone nella prospettiva di un tempo trascorso. L’ambientazione nel 1997 pone una distanza dal presente in controtendenza rispetto alle narrazioni sull’adolescenza del cinema contemporaneo.

Nel momento in cui mi è venuta l’idea di questo film, ho avuto ben presente la consapevolezza che ricordo bene com’era essere adolescente in quell’epoca, mentre non so come è adesso. Mi sembrava presuntuoso fare un film sugli adolescenti di oggi, che non conosco e sui quali avrei dovuto documentarmi. Volevo piuttosto interrogarmi su cosa ricordo della mia adolescenza e soprattutto perché ho immaginato da subito, in maniera un po’ istintiva, quest’ombra, questo senso di fine, di malattia, che incombe sulle protagoniste: perché volevo sospenderle in una sorta di bolla, coglierle in un momento separato… Mi sono piuttosto preoccupato di documentarmi con le ragazze che hanno fatto un percorso simile a quello di Clara e Irène, era questa la ricerca sul reale che mi interessava fare, non quella sugli adolescenti di oggi: non potevo rischiare di essere «falso due volte»…

L’idea della sospensione in un tempo d’attesa separato c’era già in «Sole», anche se lì era legata alla nascita, mentre qui lavora sul senso della fine.

In Sole c’era un’attesa effettiva, qui si aspetta che qualcosa inizi, ma poi la sensazione è che si aspetti sempre qualcosa che non inizia mai e invece finisce subito. La sospensione era già nell’idea iniziale di Quell’estate con Irène e stranamente ha un legame con la lavorazione del mio film precedente: prima di girare Sole, stavo ascoltando To Wish Impossible Things dei Cure, la canzone che poi è nei titoli di testa, che ha una tensione un po’ «liquida», sospesa. La canzone dura quasi cinque minuti e ricordo che mentre l’ascoltavo ho iniziato a immaginare queste ragazze che si incontravano, e sentivo che c’era quest’ombra della malattia, la fuga, l’isola… Tanti elementi che poi ho messo nel film… Non mi era mai capitato di avere una storia davanti agli occhi così a lungo, così mi appuntai in poche pagine il rapporto a due di queste ragazze, il fatto che creassero un legame in maniera molto rapida, ma soprattutto che questo legame fosse dichiarato ad alta voce.

Poi sono venuti tutti gli altri elementi: la fuga, la promessa d’amore, il ritorno dell’ombra… Quando poi, finito il percorso festivaliero di Sole, ho ripreso gli appunti e mi sono chiesto perché avessi avuto proprio quell’idea. Mi sono così venute in mente due mie amiche che erano al liceo con me, con cui ero molto legato al tempo e che poi, come spesso accade, ho perso di vista: erano unite da un legame incredibile, che aveva una dimensione assolutamente romantica, ma non in senso sessuale. Per me l’amicizia può essere una cosa romantica e questo secondo me doveva esserci nel film: volevo raccontare due persone che si scelgono e, nel momento in cui lo fanno, hai la sensazione che si siano salvate a vicenda. E questo non ha nessuna conseguenza drammatica, è proprio un fatto che avviene e rimane.

Ci sono poi le scene girate con la videocamera, che è un ulteriore elemento di profondità del tempo, di distanza dal presente.

Il passaggio dall’idea di raccontare come l’amicizia femminile sappia essere forte alla scelta di metterla in scena come se appartenesse a un’altra epoca mi ha portato a ritirare fuori tutti i ricordi di quegli anni. Quindi ho rivisto tutte le videocassette che avevo fatto nella prima estate con i miei amici, era l’epoca delle miniDV, e in questo modo si è unita alla memoria personale la forza di quella fattuale, registrata sugli home movies. Mentre rivedevo quelle immagini, notavo come avevamo 18 anni, ma davanti alla videocamera ci comportavamo spesso come dei ragazzini: era come se quello strumento un po’ magico per la nostra generazione – una specie di strano «magnificatore» – ci facesse tornare ragazzini… Il che è esattamente l’opposto di quanto accade adesso con i cellulari, dove in generale ho notato che i ragazzi si mostrano più adulti davanti all’obiettivo… Per me era una cosa importante raccontare un’estate non infantile ma nemmeno ancora adulta. E l’idea della videocamera mi ha aiutato: il tentativo era proprio quello di fare un film dal loro punto di vista, rimanendo un po’ a quell’altezza.

Hai usato le riprese video per creare una sorta di terzo set, che diventa quasi evidente nella scena in cui i ragazzi «doppiano» le immagini riprese…

È vero, la cosa impressionante è che alcune cose erano molto precise perché le giravo io, ma la scena finale l’ho impostata in modo che, dopo averla iniziata io, la continuasse una delle due attrici, seguendo la traccia fornita dal copione. Quindi una parte di quelle riprese è girata effettivamente da Noée Abita, Irène.

La scelta di non drammatizzare nessun evento, compresa la malattia, è fondamentale: tutto è sospeso su un accadere legato a un tempo interiore.

Volevo fare un film su due ragazze che non dimenticheranno mai quell’estate, quindi l’idea era di non usare la malattia in senso ricattatorio per raccontare le «ultime cose», come spesso si fa in questi casi. Mi interessava piuttosto fare un film sulle «prime cose», con la sensazione che potessero essere le ultime. In entrambi i film che ho fatto finora ho volutamente cercato di evitare quel ricatto, che può anche essere meraviglioso nell’ottica del coinvolgimento dello spettatore, ma che io non riesco a utilizzare e elaborare.

Nel rapporto tra Irène e Clara c’è qualcosa di «orfico», come se la salvezza passi attraversando il sentimento della morte, da cui bisogna in qualche modo tornare senza voltarsi indietro.

Non ci avevo pensato in maniera così netta, ma in effetti è molto chiaro: l’idea del sacrificio è presente nella loro storia. Irène trasmette una sensazione di leggerezza, ma c’è anche un confronto inevitabile con la morte. Fin da subito ci siamo detti che il personaggio di Clara sembra timido, quasi bloccato, ma trova immediatamente la forza per diventare una donna più definita: non che cambi approccio alla vita, ma incontra una promessa d’amore. E anche in questo ho cercato di essere il più fedele possibile alle sensazioni dell’adolescenza, quando anche un piccolo amore ti sembra enorme e nel ricordo tutto è pieno di magia. Per me la sfida più difficile è stata cercare di non fare un film completamente realistico. D’altra parte se avessi voluto essere realistico non lo avrei ambientato a Favignana, un’isola così particolare: non avrei fatto sparire il mondo esterno così, con nessuno che le cerca…