Septeto Santiaguero, son cubano al presente
Intervista Tra radici e sala da ballo, l’evoluzione del gruppo raccontata dal direttore artistico Fernando Dewar. La nascita durante il «periodo speciale», i due Latin Grammy vinti, gli arrangiamenti e le collaborazioni
Intervista Tra radici e sala da ballo, l’evoluzione del gruppo raccontata dal direttore artistico Fernando Dewar. La nascita durante il «periodo speciale», i due Latin Grammy vinti, gli arrangiamenti e le collaborazioni
Il Septeto Santiaguero, costituitosi nel 1995, premi Grammy Latino 2015 e 2018, è una delle più famose band di son cubano, un genere nato a Santiago di Cuba tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo. Mentre raggiungiamo il direttore artistico – e suonatore di tres, strumento tradizionale simile alla chitarra – Fernando Dewar, il gruppo è impegnato in un tour per l’Europa.
Quasi trent’anni del Septeto Santiaguero. Una storia lunga, iniziata in un momento molto difficile per l’Isola. Vorrebbe ricordarne gli inizi?
Siamo la prosecuzione di una formazione che si chiamava Melodías de Ayer, fondata nel 1962. Io suonavo il tres in un’altra formazione, e mi chiamarono a suonare nel gruppo. Quando arrivai, dato che il gruppo era un conjunto e desideravamo ridimensionarlo, chiedemmo anche all’Istituto cubano della musica di cambiare il nome. Il 2 febbraio del 1995 ci autorizzarono, e così nacque il Septeto Santiaguero, anche se eravamo otto, avendo incluso le congas. Questo avvenne in pieno «periodo speciale», con una forte contrazione della domanda di musica, quando le feste popolari diminuivano, non c’erano fondi, e le orchestre di musica popolare ballabile che suonavano durante il carnevale caddero in crisi. Molti musicisti iniziarono a suonare in piccole formazioni negli hotel in duo, trio, quartetto, eseguendo musica tradizionale, richiesta dai turisti che conoscevano i brani di Los Compadres, Miguel Matamoros, Ñico Saquito, che non venivano eseguiti da tempo.
Parliamo della posizione del Septeto nella scena cubana e del vostro stile musicale. Un gruppo che esegue son, guaracha, bolero, guaguancò… ritmo e melodia, canto e virtuosismo strumentale. Come siete arrivati al vostro suono?
Tanto lavoro. Studiamo sempre come funziona la musica per il pubblico, come questo la recepisce. Tutto è cresciuto lentamente, con l’esperienza e la maturità che siamo andati acquistando nel tempo. All’inizio suonavamo solo brani puramente tradizionali, molto conosciuti, che cercavamo di replicare senza modifiche. Tuttavia acquisimmo una sonorità più forte di quella della maggioranza dei settetti perché il gruppo dal quale provenivamo era un conjunto, una formazione molto più grande. Proviamo moltissimo curando ogni minimo dettaglio. Poi c’è l’aspetto dell’unione fra i musicisti, l’armonia fra chitarra, tres, basso e percussioni. La nostra non è musica tradizionale pura, ma con elementi contemporanei, più vicini alla musica popolare ballabile, anche se la base, l’elemento fondamentale, è sempre il son cubano. Noi lavoriamo per i giovani, facciamo una musica che può arrivare a tutti i pubblici. Ci siamo legati molto alle scuole di ballo, alla rueda de casino, spesso invitiamo la gente a ballare con noi. Abbiamo provato a rompere con lo schema per cui la musica tradizionale non entrava negli spazi grandi adatti per ballare. Per esempio qui a Santiago ci sono spazi molto importanti per la musica ballabile, come Carretera del Morro Calle 3, Santa Ursula, Marti, San Pedro, le aree fondamentali del carnevale dove si esibiscono le orchestre più famose o di maggior richiamo, e noi abbiamo fatto un grande sforzo per poter suonare in questi posti, affinché la gente vedesse che con la musica che facciamo si può anche ballare. Poi rispettiamo sempre la sonorità, il timbro. Negli ultimi tempi abbiamo curato molto l’interazione fra musicisti e pubblico. È molto importante poi l’aspetto discografico, perché ci sono gruppi che suonano tanto, ma non incidono. Facciamo dischi, videoclip, curiamo anche l’audiovisivo. E con i dischi abbiamo ottenuto una maggiore visibilità e abbiamo ottenuto premi, che garantiscono un maggiore riconoscimento nazionale e internazionale.
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Juan Formell, una voce da «songo»E giungiamo allora ai due premi, i Latin Grammy che avete vinto nel 2015 e 2018. Come hanno cambiato la vostra vita?
Abbiamo sempre sognato di vincere, ma la vedevamo come una cosa irrealizzabile, strana, distante. Tuttavia nel 2010 abbiamo provato a iscrivere un nostro disco, inviandolo. Già il solo fatto di iscriverlo per noi era importante, come lo fu il fatto che l’accademia l’abbia accettato. Abbiamo avuto la nomination quell’anno, poi nel 2011 abbiamo vinto il premio Cubadisco, e nel 2013 abbiamo registrato ancora per la stessa etichetta e ottenuto un’altra nomination al Grammy. In questo disco del 2013 c’erano tante collaborazioni, perché abbiamo lavorato parecchio anche su quest’aspetto. Molti musicisti dell’ambito della salsa amano il son. Infatti con noi hanno inciso Rubén Blades, lo scomparso Cheo Feliciano, e abbiamo anche fatto un disco con José Alberto El Canario. Da lì venne l’idea di fare il disco Tributo a Los Compadres, perché El Canario ama fischiare, come facevano Los Compadres. Grazie alle numerose collaborazioni (Andy Montañez, Oscar D’ León, Aymeé Nuviola e altri), inizialmente pensato come un disco di dieci brani è diventato alla fine un doppio, ha vinto il premio Cubadisco, il Grammy latino e ha avuto una nomination anche al Grammy americano. E nel 2018 abbiamo fatto un altro disco che ha vinto ancora il Grammy latino, A mi qué. Tributo a los clásicos cubanos, con Gilberto Santa Rosa e di nuovo José Alberto El Canario.
E l’ultimo, «Y sigo pá lante»?
È un disco per i venticinque anni del gruppo, abbiamo iniziato a celebrarli proprio incidendolo. Ma è arrivata la pandemia e non è potuto uscire subito, è uscito sulle piattaforme alla fine di ottobre dello scorso anno. Lo scorso 30 aprile abbiamo poi presentato ufficialmente il disco fisico. Quando è uscito in digitale eravamo in tour in Europa e per la prima volta anche in Giappone.
Undici dischi, una grande storia, un repertorio ampio e vario. Come innovare senza perdere il contatto con le radici?
Ti faccio un esempio: La Meneadera, il brano del Septeto più conosciuto a Cuba e a livello internazionale, molti pensano che sia di oggi, che sia nostra, ma è una composizione di Ignacio Piñeiro degli anni Venti del secolo scorso, del quale abbiamo fatto una versione moderna, rispettando soprattutto i parametri ritmici e armonici, senza cambiarli. A volte c’è chi cambia le parole, ma noi cerchiamo sempre di rispettare quelle scritte dal compositore, e il ritornello. Perché nella musica popolare ballabile, in generale, l’orchestra ha due ritornelli, uno in qualche modo principale, e un secondo, che è quello in cui la gente si diverte di più. Nella musica tradizionale, generalmente, il secondo coro non esisteva. Noi lo abbiamo aggiunto, perché è più partecipativo, più ballabile. Lo abbiamo messo per rendere il brano più moderno. E quando arrangiamo un tema badiamo molto alla clave, perché chi balla segue il basso e la clave.
Avete collaborato anche con jazzisti?
Sì, abbiamo inciso con Arturo O’ Farrill e con Nicolas Payton, che abbiamo conosciuto in un volo aereo per l’Europa; si possono ascoltare nel disco Raíz.
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