“Economia di guerra” e prospettiva di nuove forme di guerra da parte degli Usa. Questa è la terribile tenaglia in cui si trova Cuba secondo la valutazione del suo vertice politico.

La situazione di grave crisi economica e le sue conseguenze sociali sono state espresse dal presidente Miguel Díaz-Canel martedì scorso nel suo intervento all’inizio dei lavori dell’Assemblea nazionale del potere popolare (Anp, Parlamento unicamerale): “Alti deficit e evasione fiscale, aumento smisurato dei prezzi, corruzione nella burocrazia, instabilità del sistema elettrico nazionale (scarsezza di carburante) , quote di giovani che non studiano e non lavorano, famiglie in una situazione di vulnerabilità (ovvero povertà)”. Da parte sua il ministro dell’economia e pianificazione, Joaquin Alonso Vásquez, ha riferito di “insufficiente ingresso di valuta, assenza di crediti esteri, basso recupero della produzione nazionale, specie di alimenti”.

LE MINACCE di nuove aggressioni Usa sono venute durante la recente convention nazionale del Partito repubblicano Usa da Jaime Florez, il direttore della comunicazione in spagnolo dello staff di Donald Trump: “In caso di rielezione, nei confronti di Cuba Trump seguirà la linea della sua amministrazione anteriore”. Ossia una politica di strangolamento dell’economia cubana per provocare la caduta del governo socialista. Florez, di origine colombiana, ha avuto la faccia di tolla di affermare che “l’embargo che esiste contro Cuba è colpa di Cuba, non degli Stati uniti”. Se vuole emendarsi di tale “colpa”, a suo dire, l’Avana deve sottostare alle condizioni di The Donald. Una delle quali sarebbe “smettere di continuare a esportare la sua Rivoluzione in altri paesi in America latina” (sic). La principale, buttare a mare il socialismo.

L’INSTAURAZIONE di un’”economia di guerra” è dunque una misura necessaria per affrontare una situazione – crisi macroeconomica e recessione – di gravità eccezionale, dovuta in gran parte al blocco economico-commerciale e finanziario degli Usa unito agli effetti negativi prodotti dalla pandemia da Covid-19. Ma anche, e questa è una novità, a causa di “distorsioni” del modello socialista e da piani di riforme (tarea Ordenamiento) sbagliati e dalle pesanti conseguenze, soprattutto in termini di inflazione e recessione (nel 2023, -1,9% del Pil e il 31,3% di inflazione nel settore ufficiale, in quello “informale” ben più alta).

Il presidente Miguel Diaz-Canel
Il presidente Miguel Diaz-Canel

Le misure annunciate – che si sommano agli aumenti di prezzi di decisi lo scorso dicembre – riguardano sostanzialmente l’eliminazione della dogana su alcuni beni importati (pollo, olio di semi, latte in polvere, detersivi, pasta e fagioli) assieme però alla imposizione di un prezzo massimo (tope) nella loro vendita al minuto. Commercializzazione che, secondo l’Onei – l’Istat locale – avviene ormai quasi al 50% attraverso il settore non statale, le cosidette Mipymes, micro piccole e medie imprese che in gran parte sono negozietti dove si vendono prodotti di prima necessità importati da privati.

“Non si tratta di un caccia alle streghe” contro il settore non statale, ha voluto mettere in chiaro Díaz-Canel. Si tratta di misure per garantire “la maggior quantità di offerta di beni e servizi a prezzi adeguati per la popolazione” . “Il nostro modello economico – ha proseguito il presidente- prevede che il ruolo fondamentale sia riservato all’impresa statale socialista” del quale il settore non statale deve essere un complemento.

È CHIARO PERÒ che una misura amministrativa che stabilisce i prezzi massimi colpisce i privati, accusati appunto di causare una “distorsione” con aumenti speculativi. Ma che, di fatto, sono ormai i principali fornitori di beni di prima necessità, almeno per quelli che possono affrontarne i prezzi. Per gli altri, quelli che lavorano nel settore statale e che non ricevono valuta da parenti all’estero, è la caduta sempre più veloce in una “situazione di vulnerabilità”. Ed è al tentativo di frenare la “pressione sociale” che viene da questo settore – quello che più ha sostenuto la Rivoluzione – che è dovuta la decisione di intervenire con il blocco dei prezzi.

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Si tratta però – così sostengono economisti non certo affini all’opposizione o alla contra di Miami – di misure che hanno un effetto parziale e limitato nel tempo. E che, specialmente in vista della minaccia di una nuova presidenza di Trump, devono essere accompagnate “da riforme strutturali”.

“Trincerarsi nel sistema economico di pianificazione centralizzata e controllo amministrativo dell’economia e considerare le Mipymes come un pericolo per le imprese statali non può funzionare. Non si tratta di favorire la privatizzazione. Si tratta di riformare le imprese statali perché funzionino appunto come imprese – non controllate e sovvenzionate dal centro. E perché vi siano mercati con regole chiare che valgano per industria di stato e imprese non statali”, afferma l’economista Ileana Díaz.

IL DIBATTITO sulla natura del socialismo cubano è ovviamente troppo complesso per darne conto. Ma su un punto vi è accordo: il tempo stringe. Vi è una sorta di “crisi nella coscienza sociale di quei settori più colpiti e più affini alla Rivoluzione. Se non riescono a mettere in tavola di che sfamarsi non gli interessa più se la causa è il bloqueo Usa”, sostiene il blog riformista la Joven Cuba.

Lo dimostra l’emigrazione in crescita. Un tasto su cui batte la contra: secondo una fonte diffusa dall’agenzia spagnola Efe e ripresa da molti media, la popolazione di Cuba sarebbe addirittura scesa sotto i 9 milioni di persone (la cifra ufficiale è 11,2 milioni). Un’esagerazione velenosa, certo. Ma che negli ultimi due-tre anni più di un milione di cubani (giovani soprattutto) siano emigrati è stato confermato da fonti ufficiali.

Per questa ragione, Díaz- Canel venerdì alla conclusione dei lavori dell’Anp, ha affermato: “E’ vero , è un momento molto difficile. La Rivoluzione viene sfidata a rivoluzionarsi. È quello che stiamo facendo”.