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Se la ferita inattesa nasconde la mano dell’uomo

Se la ferita inattesa nasconde la mano dell’uomo

Catastrofi La tragedia della Marmolada riapre una ferita che nessun vuol vedere. Per un verso è assai simile a quella del crollo del Ponte Morandi a Genova. In tutte e due i casi, come in moltissimi altri, direttamente o indirettamente, entra in gioco la mano umana o meglio la sua assenza. Si può prevedere il futuro?

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 6 luglio 2022

La tragedia della Marmolada riapre una ferita che nessun vuol vedere. Per un verso è assai simile a quella del crollo del Ponte Morandi a Genova. In tutte e due i casi, come in moltissimi altri, direttamente o indirettamente, entra in gioco la mano umana o meglio la sua assenza. Si può prevedere il futuro? Se per futuro intendiamo ciò che accadrà quel preciso istante di quel giorno dato, la risposta è no. L’inatteso e l’imprevisto incombono su di noi e sulla nostra vita. Ma rispetto all’inatteso e all’imprevisto, la domanda è un’altra: possiamo preparaci a qualcosa di cui ignoriamo il tempo del suo accadimento?

La risposta in questo caso è sì. Anche se il filosofo Nicola Cusano e lo scienziato Isaac Newton si affannarono a calcolare il tempo apocalittico della fine della storia e del mondo, questo fu un lavoro sprecato. Tuttavia, anche se le previsioni non potevano e non possono anticipare il tempo e il luogo di un evento, sono in grado di dirci che qualcosa accadrà. Prendiamo il caso dei terremoti: non possiamo prevedere con certezza il dove e il quando ma siamo in grado di conoscere e valutare i rischi delle zone sismiche e costruire strutture e infrastrutture capaci di reggere all’impatto dell’inatteso. Nel 1755 il terremoto di Lisbona suscitò una riflessione sul senso da dare a un evento inatteso di quella tragica portata. Voltaire, Rousseau, Kant, ciascuno a suo modo, ne discussero (Andrea Tagliapietra alcuni anni fa ne raccolse i testi per la Bruno Mondadori). Nel 1783 vi fu il terremoto calabro-siculo (Goethe poté vedere le macerie di Messina).

Alla notizia di Lisbona, il sessantenne Voltaire ebbe una crisi filosofica e morale. Cominciò a stendere il Poema sul disastro di Lisbona. Egli dipinse un quadro desolante delle condizioni dell’umanità devastata dal male e priva della provvidenza: «Elementi, animali, esseri umani, tutto è in guerra. Bisogna ammetterlo, il male è sulla terra…..Ma come concepire un Dio, essenza di bontà, che fa dono dei propri beni ai suoi amati figli e che riversa su di loro i mali a piene mani?». Voltaire ripropone qui il tema della contraddizione tra l’onnipotenza e la bontà di Dio, un tema che nel XX secolo Hans Jonas riprenderà a proposito non di una catastrofe naturale ma di Auschwitz. E dopo di lui Sergio Quinzio e oggi, sul piano politico-sociale e ambientale, papa Bergoglio. A Voltaire risponde, come è noto, Rousseau: «Se il problema dell’origine del male vi costringeva a intaccare qualcuna delle perfezioni di Dio, perché voler giustificare la sua potenza a scapito della bontà? Se è necessario scegliere tra i due errori, personalmente preferisco il primo». Il problema posto da Rousseau non riguarda, come si vede, il pessimismo o l’ottimismo sulle cose del mondo e della storia, bensì quale responsabilità hanno gli uomini rispetto alle catastrofi.

A proposito del terremoto di Lisbona, Rousseau osserva: «…converrete che, per esempio, la natura non aveva affatto riunito in quel luogo ventimila case di sei o sette piani, e che se gli abitanti di quella grande città fossero stati distribuiti più equamente sul territorio e alloggiati in edifici di minor imponenza, il disastro sarebbe stato meno violento o, forse, non ci sarebbe stato affatto». Rousseau coglie qui il nesso tra prevedibilità e responsabilità, una questione che si ripresenta ogni qualvolta accade un disastro naturale o, oggi diremmo, ambientale. Rousseau conclude dicendo che: «Personalmente vedo ovunque che i mali che ci assegna la natura sono molto meno crudeli di quelli che aggiungiamo per nostra scelta ad essi». Gli illuministi avevano già colto il nocciolo del problema nel XVIII secolo. Nel Novecento quel problema fu risollevato da filosofi ebrei e da teologi cristiani. Le vie delle idee sono infinite.

Eppure, smemorati, continuiamo a ripeterci stolidamente e ipocritamente che mai più ciò dovrà accadere, che non si dovranno ripetere gli errori umani, fino alla prossima catastrofe di cui non potremo prevedere il dove e il quando, ma di cui sappiamo che accadrà. A cosa servono la memoria e la storia, quando un presente che non vuole avere dubbi riempie tutto il nevrotico, ansiogeno e ossessivo tempo a scapito del passato e del futuro?

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