Già nel 1947, però, Stalin decise di degradare il 9 maggio a giorno lavorativo, probabilmente preoccupato che il mito della Vittoria (e del generale Žukov) potesse oscurare il suo. La parata venne riproposta nel 20° anniversario (1965) e per volontà di Brežnev il 9 maggio tornò ad essere festa nazionale. Di lì in avanti la parata si svolse ogni cinque anni, ovvero negli anniversari più importanti per non oscurare quella del 7 novembre in ricordo della Rivoluzione d’Ottobre. Nonostante ciò, il giorno della Vittoria si trasformò nel principale collante identitario della società sovietica e i festeggiamenti annuali divennero i più rilevanti durante il tardo socialismo. La Grande guerra patriottica sostituì gli altri miti fondativi dell’URSS e il suo mito divenne il più durevole nella coscienza collettiva russa.

Anche nei primi anni Novanta, nonostante la caduta dell’URSS, nessuna forza politica significativa disconobbe il valore eroico del sacrificio russo nella seconda guerra mondiale. Già nel 1995 El’cin decise di tenere nuovamente la parata e negli anni successivi le celebrazioni non ufficiali testimoniarono il perdurare del mito della Vittoria e di Stalin tra la popolazione.

Con l’arrivo di Putin nel 2000 il 9 maggio ha assunto una forte centralità nella narrazione storica del Cremlino. Putin ha posto al centro dell’identità della Russia il culto dello Stato e delle sue vittorie, sostituendo alla narrazione storica dominata dalle fratture il concetto di un lunga tradizione statuale da declinare in chiave patriottica e trionfalista.

È in questo quadro che Putin ha organizzato in pompa magna la parata del 2005, in occasione del 60° anniversario della Vittoria. Inizialmente pensata per ricordare il sacrificio dei popoli post-sovietici attraverso una rievocazione storica, la parata si è trasformata sempre più in una dimostrazione della forza militare russa.

I principali leader stranieri, invitati da Mosca, hanno partecipato alla cerimonia solo durante gli anniversari più importanti (ovvero 60°, 65° e 70°). In quelle occasioni la composizione del parterre ha rispecchiato le tendenze della politica estera del Cremlino. Nel 2005 accanto a Putin sedeva il presidente americano Bush per rimarcare la vicinanza tra i due nella “lotta al terrorismo”. Nel 2015, dopo l’occupazione russa della Crimea, a fianco di Putin c’era il presidente cinese Xi Jinping, a segnalare la convergenza tra i due regimi nel momento in cui la Russia veniva “isolata” dall’Occidente.

Infine quest’anno la parata, come sempre capita durante gli anniversari meno importanti, si è svolta in tono minore e senza diplomatici stranieri. Nonostante questo anniversario non sia stato come gli altri, a causa della guerra russa in Ucraina, nel suo discorso di apertura Putin ha riproposto la stessa narrazione storica e geopolitica che utilizza da vent’anni.

Il presidente russo ha fatto riferimento alla dimensione multietnica della Federazione russa e all’unione di tutte le etnie legate storicamente alla Russia sotto le insegne del Cremlino, unione che sarebbe alla base dei successi tanto passati quanto futuri dell’Impero. Putin propone ormai da tempo una narrazione neo-staliniana del significato della Vittoria: gli slogan usati rimandano ad una dimensione imperiale russo-centrica tipica dello stalinismo, una retorica connessa a quel moderno senso dell’identità russa nato negli anni Trenta del Novecento.

Pertanto parlare di “nazionalismo” in riferimento alla Russia di Putin pare inesatto. La Russia non è uno Stato nazione, ma un paese multietnico in cui la classe dirigente oggi al potere pensa e agisce seguendo una prospettiva imperiale. Mosca rivendica la sua dimensione di Impero, il suo diritto-dovere di esercitare influenza nell’area geopolitica euroasiatica storicamente dominata dai russi. Nel farlo pretende il riconoscimento su base paritaria dalle altre grandi potenze (USA e Cina) e ambisce all’obiettivo di stabilire un nuovo sistema di sicurezza internazionale che rispecchi maggiormente gli interessi russi.

È un punto di vista, un modo di intendere se stessi e una visione del mondo che il Cremlino ha costruito negli ultimi vent’anni e che oggi porta avanti con determinazione anche militare. È uno status, quello presunto di grande potenza, a cui l’attuale leadership russa con o senza Putin non rinuncerà. L’isolamento non la spaventa, come già non spaventava il gruppo dirigente staliniano.

Mosca nella sua postura neo-imperiale si rivolge alla Nato (che indentifica con gli Usa e alla Cina: vuole essere grande tra i grandi. E l’Unione Europea? Questa sembra sparita dai discorsi di Putin e dalla partita sul terreno, incastrata dalle difficoltà di darsi una politica e una strategia autonoma. L’Europa rischia così di rimanere schiacciata nello scontro tra due imperi, uno scontro dalla durata e dagli esiti imprevedibili che si svolge sul continente europeo e ne mette in pericolo la sua stessa esistenza.