Visioni

«Rossosperanza», anni 90: rabbia giovane e relazioni di potere

«Rossosperanza», anni 90: rabbia giovane e relazioni di potereScena da «Rosso speranza» di Annarita Zambrano

Locarno 76 In concorso il secondo lungometraggio di Annarita Zambrano, tra gesti e desideri di vendetta

Pubblicato più di un anno faEdizione del 11 agosto 2023

C’è un desiderio di ribellione nel cinema italiano? Così dicono almeno i due film scelti dal festival di Locarno per rappresentare l’Italia nella corsa al Pardo d’oro, Patagonia opera prima di Simone Borzelli e Rossosperanza di Annarita Zambrano. Il primo visto nei giorni scorso è l’ esordio nel lungometraggio di un regista giovane che si è fatto notare per i suoi corti e per la regia di I Wanna Be Your Slave, il videoclip dei Måneskin – che echeggia anche nel film.L’on the road di un ventenne naif alla scoperta di sé e del mondo che lascia tutto per seguire un altro ragazzo nella sua vita tra rave e campeggi più o meno underground, passando attraverso una relazione di «potere» non semplicemente sessuale e nuova consapevolezza che la rende reciprocità.

«ROSSOSPERANZA», presentato ieri in chiusura della competizione e in sala il 24 agosto, è invece il secondo lungometraggio di Annarita Zambrano, regista romana con base in Francia la cui opera prima, Dopo la guerra (2017), era stata al Certain Regard di Cannes. Al centro qui c’è la volontà di rottura con la famiglia e con quanto rappresenta in termini di ordine sociale e perbenismo irrancidito – codici, soprusi, violenza – rispetto al desiderio dei figli che provano a distruggere quell’universo dei padri come possono, anche massacrandosi, usando i loro corpi come un’arma – fragile e potente insieme. L’epoca sono gli anni Novanta italiani spiati nei palazzi romani di notabili e ricche e potenti famiglie: una borghesia alta di poteri politici, finanziari, ecclesiastici che può inghiottire ogni «scandalo», cancellare qualsiasi crepa. È da questo ambiente che arrivano i protagonisti,due ragazze e due ragazzi rinchiusi dai genitori, padri-padroni tutti uguali nei loro riti e madri succubi, in una specie di casa di cura di lusso per renderli «normali». Ma cosa significa?

Al centro qui c’è la volontà di rottura con la famiglia e con quanto rappresenta in termini di ordine sociale e perbenismo irrancidito

ZENA (Margherita Morellini) che è un po’ l’io silente narrante della storia con le cuffie sempre in testa e la valigia da dj muovendo i suoi dischi ci porta avanti e indietro nel tempo nelle vite e nei traumi di Marzia (Ludovica Rubino), la sua compagna di stanza, sessualità libera perciò etichettata come «ninfomane», che provoca gli influenti amici della madre quasi per vendetta – come quell’autore tv una figura alla Boncompagni verso il quale la madre è pronta a spingerlo. Di Alfonso (Leonardo Giuliani, look molto Måneskin pure se trent’anni fa) gay e per questo considerato dal padre che lo vuole «maschio» una vergogna. Di Adriano che non parla e è stato probabile testimone del femminicidio di sua madre. E di sé stessa e di suo fratello Tommaso bullizzato per le balbuzie dai cugini a cui cerca di piacere in ogni modo, una famiglia la loro a stretto contatto col Papa (quasi all’Emanuela Orlandi) e con prelati rapaci sessualmente e nonni fascisti. Come difendersi? Con l’immaginazione un po’ come capita a ciascuna di noi quando qualcuno ti passa davanti in una coda o non si ferma mentre attraversi e immagini che gli si buchi una ruota. Solo che qui le violenze subite sono più feroci, hanno impresso cicatrici profonde e soprattutto mostrano una violenza che governa nelle sue relazioni l’Italia del tempo.

NELLE NOTE di regia l’autrice – che ha anche scritto la sceneggiatura – spiega di essersi ispirata al vissuto personale e a quello di amiche e amici dei suoi vent’anni. «Il cinema mi ha aiutata a crescere, a sopravvivere, a diventare adulta» dice. E questo aspetto appunto di «tradurre» nell’immaginazione i gesti e i desideri di vendetta e rivincita cruenta quasi dei super poteri giustizialisti è un po’ ciò che il film cerca di fare. Zena immagina di far saltare in aria i ragazzi che abusano le ragazze e suo fratello, o di avvelenare il cardinale, Marzia di liberare la tigre che il padre tiene chiusa in gabbia perché divori gli invitati «mostruosi» della madre e i suoi altrettanto orrendi genitori. Ecco la tigre, Gisella, anche lei figura vendicatrice attraversa la narrazione un po’ come allora la Pantera che si diceva circolasse libera per Roma – o forse era la proiezione del movimento degli studenti? – sospendendo il tempo e il paesaggio. Ma è proprio in questa relazione tra realtà e fantasmagoria(con echi sorrentiniani) che il film non trova un equilibrio, e sembra bloccarsi quasi che la regista nella necessità di far cortocircuitare passato e presente perda di vista a la dimensione fantastica e la distanza necessario alla sua cifra da «commedia nera». Tutto è fin troppo ordinato o preordinato nella scrittura che di per sé non è un male se arrivasse l’immagine a scompigliare, a spiazzare i nostri sguardi, a metterne sottosopra gli orizzonti annunciati.

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