Visioni

Jane Campion, oltre il genere

Jane Campion, oltre il genereJane Campion – foto GettyImages

Locarno 77 Incontro con la regista neozelandese, omaggiata al festival con il Pardo d’onore e due proiezioni. Il cinema e il «female gaze», la gioventù e la formazione

Pubblicato 3 mesi faEdizione del 18 agosto 2024

«Il movimento Me Too è stato molto importante nella battaglia delle donne per conquistare un diverso spazio all’interno dell’industria cinematografica. Quando ho iniziato a fare film spesso gli attori uomini non volevano essere diretti dalle registe che erano un numero molto esiguo. Sono felice che le cose stiano cambiando, che ci siano nuove registe di successo, che vincono premi importanti, penso a Justine Triet, Julie Ducournau. E si affermano anche nell’industria hollywoodiana come è stato per Greta Gerwig: ha fatto un film sul personaggio di Barbie che è di per sé molto ambiguo, che concentra l’immagine della donna desiderata dagli uomini, è stata un modello per tante ragazzine. Lei lo ha capovolto rendendo la sua Barbie una figura femminista che dissolve gli stereotipi, e con questo ha guadagnato milioni di dollari al botteghino. Non dobbiamo dimenticare però che viviamo nel patriarcato, e che anche le donne ne sono parte spesso aderendovi completamente». Jane Campion lo sa bene, dall’esordio ha messo al centro delle sue narrazioni dei personaggi femminili che rifiutavano le abitudini e le aspettative degli sguardi dominanti, pioniera e riferimento fondante per un «female gaze» che supera il genere nella scelta di una propria prospettiva. A Locarno la regista neozelandese (nata a Wellington nel 1954) che è stata la prima a vincere la Palma d’oro a Cannes, nel 1993 con Lezioni di piano, e tra le pochissime a conquistare l’Oscar con Il potere del cane nel 2022, ha ricevuto il Pardo d’onore presentando An Angel at my Table (1990) e The Piano (1993). Il primo è ispirato alla vita della poetessa neozelandese Janet Frame, nata in una famiglia povera, ragazzina insicura e solitaria, che dopo un tentativo di suicidio viene rinchiusa in manicomio e diagnosticata schizofrenica. La scrittura sarà per lei uno spazio resiliente, in cui ricominciare a vivere.

Il secondo, con cui appunto si è affermata, è una storia d’amore e di liberazione, composta su Ada, pianista muta inglese dalla nascita, che viene venduta in matrimonio a un uomo in Australia, e abbandonata con le sue cose sulla spiaggia, insieme alla figlioletta, Flora. Il marito vorrebbe lasciare lì il suo pianoforte, il solo col quale si instaura un rapporto che sarà poi di desiderio, attrazione, amore è il vicino di casa, anche lui qualcuno che non si rispecchia nell’ordine sociale dell’epoca vittoriana (Harvey Keital).

Personaggio magnifico, con una massa di capelli ricci e rossi, con cui vinse il Leone d’argento alla Mostra di Venezia, la sua Janet Frame racchiude anche quella relazione della regista con la letteratura, riferimento per molti suoi film: «Mi ero innamorata dell’autobiografia di Janet Frame molto prima del film, ero stata a casa sua per chiederle i diritti, all’epoca non avevo ancora girato nulla. Lei mi aveva detto che lo avrebbe tenuto per me ma che voleva leggessi prima gli altri libri che avrebbe pubblicato. Era incredibile che dopo tutti quegli elettroshock conservasse ancora una memoria così lucida della sua vita, della sua infanzia che ha poi narrato nelle sue pagine. L’arte è stata per lei uno strumento di resistenza, era sempre lì quel talento nascosto in un bambina timida e insicura che nessuno aveva compreso, e nella cui fragilità vedevo qualcosa di me. La letteratura sarà poi spesso un punto di partenza per le mie storie, mi trovo più a mio agio ad esplorare il lavoro di qualcun altro, mi sembra di capire quello che vogliono esprimere e come lo fanno».

Figlia di artisti, una coppia di teatro, la mamma attrice, Beverly Georgette Hannah e il padre, Richard Campion, regista. La giovane Jane però si orienterà verso altro, gli studi di antropologia, l’Accademia di Belle arti (a Sidney) evitando le scene. «Trovare una definizione di se stessi quando si è giovani è molto complicato e diventa impossibile se si rimane nell’ombra dei propri genitori». Prima ci sono anni irrequieti, la scuola non le piace, «l’adolescenza è il periodo più difficile della vita, è un momento pauroso di passaggio, molto contraddittorio finché all’improvviso non realizzi di essere una donna. Per questo i giovani dovrebbero essere sostenuti e protetti dagli adulti».

Appena può parte per l’Europa, Venezia, l’Italia, Londra, una solitudine che è anche un passaggio di formazione e che l’avvicina al cinema. «Stare molto da soli è un buon modo per imparare a interrogare te stesso, l’immaginazione si allena e diventi più forte. Mi sono chiesta chi ero e la risposta è stata: una storyteller. Per dare voce alle mie storie ho capito che il cinema avrebbe funzionato meglio dell’arte».

E come è andata?

Gli inizi sono stati abbastanza catastrofici, non avevo esperienza, ho realizzato un cortometraggio mentre ero ancora all’Accademia e per lo stress mi sono ammalata. La scuola di cinema è stata importante perché ho conosciuto alcune persone che poi mi hanno accompagnata e sostenuta nel futuro, ed è stato lì che ho realizzato il cortometraggio col quale ho vinto il premio a Cannes, Peel. Ricordo ancora che la sera della cerimonia dei premi il mio produttore, Pierre Rissient ci aveva portati a cena fuori città, la proiezione non era andata bene, c’erano stati molti problemi tecnici. Poi quando siamo tornati qualcuno per strada mi ha fatto i complimenti, io non capivo e lui mi ha detto che avevo vinto il premio per il miglior corto. È stato incredibile, e mi ha aiutata a pensare che avevo fatto la scelta giusta. Gilles Jacob, all’epoca era il direttore di Cannes, ci ha detto che avrebbe sostenuto la richiesta di finanziamenti in Australia per il mio lungometraggio ma dovevo promettere di portarlo a Cannes. Era Sweetie (1989), che venne presentato poi in concorso. Era sicuramente un film spiazzante allora, che sovvertiva molti codici, tante persone si sono sentite a disagio guardandolo ma ancora oggi sono colpita dalla sua forza, dal suo sguardo, da quel personaggio malgrado le mie ingenuità di regista. Per fare film si devono assumere dei rischi, bisogna provare le cose e sbagliare e andare avanti. Si impara col tempo e con le esperienze anche a cambiare.

Ci sono film o autori che sono stati particolarmente importanti nella sua formazione?

David Lynch e Polanski, Agnes Varda e il suo Senza tetto né legge, Coppola e Apocalypse Now. Tra i registi australiani mi piace molto George Miller, trovo che Mad Max sia estremamente inventivo.

Lei è considerata un riferimento per il cinema delle donne. Cosa ne pensa?

Il femminismo è una questione complessa, anche le donne vivono nel patriarcato, ne vengono influenzate e accettano di sottomettersi alla sua autorità. Il genere non è per me una questione prioritaria, mi piace scoprire le persone, e anche fra gli uomini ce ne sono che temono di mostrare il loro lato femminile. The Piano è stato un film di passaggio nel racconto del desiderio che ha sorpreso il pubblico. Il sesso e l’amore sono per me le cose più belle di sempre, quel film lavorava sul desiderio femminile che forse ancora oggi può risultare spiazzante.

ABBONAMENTI

Passa dalla parte del torto.

Sostieni l’informazione libera e senza padroni.
Leggi senza limiti il manifesto su sito e app in anteprima dalla mezzanotte. E tutti i servizi della membership sono inclusi.

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento