Locarno 77, il Portogallo tra paura e utopia in «Fogo do vento»
Locarno 77 L’esordio di Marta Mateus riflette sulla repressione delle comunità rurali. Le influenze di Pedro Costa, anche produttore, e la Rivoluzione filtrata da Straub Huillet
Locarno 77 L’esordio di Marta Mateus riflette sulla repressione delle comunità rurali. Le influenze di Pedro Costa, anche produttore, e la Rivoluzione filtrata da Straub Huillet
La chiusura di Locarno 77 in Piazza Grande è affidata stasera a Le Procès du chien, il film di Laetitia Dosch, attrice passata dietro alla macchina da presa con questa commedia giudiziaria surreale (è stata presentata al Certain regard di Cannes) con un cane sotto processo per avere morso una donna sul volto. Da qualche giorno sono iniziati i primi «bilanci», il cortile della Sopracenerina, centro del festival si è svuotato, molti festivalieri sono partiti prima di ferragosto, e anche la cittadina ticinese appariva nella notte di mezza estate non così scoppiettante – a parte la fila di automobili in marcia lungo il lago. È il calendario delle vacanze, ci dicono, la Svizzera tedesca riapre le scuole, e il Ticino che è la sua meta privilegiata si svuota. Il festival non è riuscito a controbilanciare questa abitudine nonostante l’avanzamento nel calendario – dovuto probabilmente alle Olimpiadi – ma è vero anche che il cambio franco svizzero/euro rende ormai la permanenza a Locarno molto costosa, un punto questo su cui qualsiasi organizzazione futura dovrebbe riflettere. Il calendario è stato anche oggetto di discussioni a partire dalla proposta della nuova presidente, Maja Hoffman, di anticipare la manifestazione a luglio in vista di una maggiore apertura internazionale – allontanandosi così da Venezia e da Toronto – qui subito osteggiata. Come poco gradito tanto da non apparire quasi in nessuna parte della città è il manifesto creato per l’occasione da Annie Leibovitz – e incomprensibilmente perché con quel suo effetto di iperreale «animalier» porta con sé molte inquietudini contemporanee.
Alla rituale domanda «chi vincerà il Pardo?» con la giuria guidata da Jessica Hausner, insieme a Cent mille milliards di Virgil Vernier – film che cresce dopo la prima visione – e ai più noti Wang Bing (Jeunesse secondo capitolo) e Hong Sang-soo (By the Stream) troviamo Fogo do vento di Marta Mateus, autrice di un cortometraggio, Farpões Baldios (2017) proposto alla Quinzaine di Cannes. Un esordio questo della regista portoghese che porta in sé molti riflessi del cinema di Pedro Costa che lo ha prodotto, dai «temi», la Rivoluzione dei Garofani che caratterizzava il suo primo film, O Sangue, alle passioni – autori quali Straub e Huillet a cui Costa aveva dedicato il magnifico ritratto di Où gît votre sourire enfoui? (2001). E forse è il suo limite pure se poi il film prende una direzione che gli dà una singolarità, più affine agli Operai contadini straubiani che al sottoproletariato migrante urbano costiano.
MA COSA RACCONTA Fogo do vento? Di un gruppo di contadini appunto, fra cui una ragazza che durate la raccolta dell’uva, sotto al sole dell’Alentejo, mentre stacca i grappoli si concede qualche istante di gioco, un sorriso con un ragazzo, uno scherzo. Questo non può essere accettato nel ritmo del lavoro, devono essere rapidi, raccogliere quanta più uva possibile come fossero macchine, il padrone la rimprovera, le dice che è pigra e lei in un gesto di stizza si taglia la mano. Al tramonto, quando lasciano i campi un enorme toro li assale, li sparpaglia, uccide qualcuno di loro, altri si rifugiano sugli alberi, e in quella notte infinita di attesa il tempo si dilata, il reale del quotidiano si apre alla narrazione della storia portoghese, un passato che è presente nell’esperienza comune e in quella di ciascuno, i cui conflitti e dolori continuano a risuonare nella realtà di oggi.
L’immagine del toro è stata per la regista il punto di partenza, l’animale infuriato che si fa simbolo di una repressione costante, politica, militare, sociale. «Mi interessava lavorare su questa idea di comunità che in Portogallo vengono smantellate, è una scelta politica molto chiara. La dimensione collettiva permette di sopravvivere, oggi però i legami tra le persone sono sfilacciati, anche chi vive nello stesso luogo si incrocia raramente, perché appartiene a contesti diversi, e solo quando accade qualcosa di tragico ci si ritrova».
IN QUESTO SPAZIO e tempo del pericolo che si fanno dunque comuni, nell’attesa di un’alba che allontani il nemico, le storie riportano ai giorni della Rivoluzione portoghese, del popolo unito nella lotta, e a coloro che come il marito di una delle donne più anziane protagoniste, Ana Catarina, era partito nelle guerre coloniali; guardando le sue fotografie lei ricorda la sua paura e la sua volontà di lasciare le armi. C’è una voce della radio libera che unisce e in quella lotta si ritrovano a essere «comunità», tutte e tutti insieme superando le divisioni – di classe, di ruolo, sociali, culturali – che ben presto però riaffioreranno. La dimensione del racconto, della presa di parola fatta da esperienza e vissuto porta pian piano a comporre una memoria nella quale i frammenti di passato e quelli di un presente possibile si fanno spazio comune, e da quel momento rivoluzionario prendono altre piste dove si rispecchiano le vicende della campagna e dei suoi lavoratori, sempre più esclusi dalla economie; e una contemporaneità nella quale ritorna lo stesso capitalismo feroce di quel toro impazzito colpendo ogni ipotesi comunitaria vista come un pericolo perché germe di una possibile lotta.
Nell’effetto notte che avvolge quegli alberi, in un’oscurità filmata con sapienza, Mateus mette al centro la materia dell’immagine: è lì che sperimenta e compone la sua forma e la sua narrazione, nel costante dialogo fra luce e parola, in una temporalità che è fatta da individuo e da collettività. È qualcosa che sfumerà col giorno o forse è l’inizio di una utopia? Fra le incertezze e il bisogno di ancorarsi a un bagaglio di immaginari c’è un’ipotesi di cinema che può sorprendere.
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