Visioni

«Bogancloch», Ben Rivers e l’occhio che guarda

«Bogancloch», Ben Rivers e l’occhio che guardaUna scena da "Bogancloch"

Locarno 77 In concorso il nuovo film del regista inglese, girato in pellicola nell'omonima località della Scozia. Al centro Jake Williams, eremita dei nostri tempi

Pubblicato 3 mesi faEdizione del 18 agosto 2024

Come ogni volta (sono oltre quaranta i suoi film, recita il catalogo), prima di ogni cosa (anzi, al di là della «cosa»), il cinema di Ben Rivers, tanto più questo ultimo, magnifico Bogancloch in concorso a Locarno, è tutta una trama di riflessi insidiati dall’ombra, e in effetti i primi cinque minuti del film sono immersi nell’oscurità, in un’effusione totale tra schermo e sala, una comunione tra la brughiera e la tappezzeria rossigna del Kursaal –; è cinema di forma, cinema concentrato sul «come vedere, inquadrare» e solo in seconda battuta sguardo gettato sull’oggetto. È come se piuttosto che ciò che l’occhio vede, riprende, a Rivers interessi il processo stesso del palpebrare (il meccanismo che porta la palpebra ad alzarsi e la macula a darsi alla luce, poi ad abbassarsi e così via), l’atto dell’aprire gli occhi, e del taglio da dare all’apparenza rivelatasi, come il taglio netto, «originario», così gonfio di materia simbolica, all’inizio del Cane andaluso. Un bianco e nero – frammezzato da rade vedute a colori, come per dare calore a un repertorio di immagini sempre sul punto di spegnersi – tutt’altro che abbacinante (come piace dire al critico) quello di Bogancloch, bensì sporco, disturbato, sopraffatto da una tempesta di radiazioni, di un nulla di granelli elettrici formicolante nel quadro, come nelle visioni televisive captate con antenna portatile negli anni Ottanta, mentre si era in campeggio nel mezzo della brughiera o chissà dove, nel tentativo disperato di catturare una qualche forma in quel «videodrome», in quel brulicame di nonsenso sullo schermo convesso. Immagini arrivate da chissà dove, da chissà quale iperuranio, magari filtrate da uno sguardo alieno, marziano, vagolante dentro un firmamento stereotipo, dipinto in scala di grigi, tra astri già smorti, pronti a collassare nel buio.

IL MONDO di Rivers sembra quello trasmesso da un videoregistratore con le testine sporche: una dimensione tutta linguistica (impressa su nastro usurato, sgualcito) in cui non vedi più le carabattole accatastate in quest’eremo che è Bogancloch (Scozia) e in cui si aggira Jake Williams (come un Thoreau che andò nei boschi), le chitarre appese alle pareti, i tratturi fagocitati dalla nebbia e i filari degli alberi nei boschi, oppure i bivacchi, i falò crepitanti nel buio, ma vedi dei sintagmi analogici, lacerti di un video-organismo.

Interferenze che crocchiano, crepitano come i tanti fuochi disseminati in questo film, i falò intorno a cui il crocchio di volti antichi, quasi mitologici, canta nella notte – canzoni in cui la vita (la luce) cerca di avere la meglio sulla morte (l’ombra). Così il film arde, scoppietta; l’analogico crocchia, si fa fuoco: brucia come nella straordinaria sequenza finale in cui Jake Williams si fa il bagno all’aperto e canta, in pieno inverno, con la neve tutt’intorno, dentro una vasca sotto cui arde un falò, ritrovandosi alla fine, la neve scioltasi, in primavera, con tutto un brusio di uccelli e di vegetazione intorno. E la pellicola continua a scoppiettare, ad alimentarsi di crepitii – perché non cada nel buio, nel vuoto – e la visione s’innalza in piano-sequenza, in verticale, mantenendo lo sguardo fisso su Bogancloch e Jake, fino a entrare nella stratosfera e perdersi poi nei fuochi spenti di stelle fredde.

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