C’è una sequenza nel nuovo film di Marco Bellocchio, Rapito – con cui il regista torna sulla Croisette dopo Esterno notte e la Palma d’onore di due anni fa – che illumina con precisione la parabola di Edgardo Mortara, quando cioè il bambino, figlio di una famiglia ebrea bolognese a cui è stato sottratto con la forza dal papa perché battezzato segretamente, quando prende la cresima diventando un «soldato di Cristo». La sua progressiva trasformazione in «macchina da guerra» cattolica nutrita di fanatismo e ostinazione, che lo porterà a cercare di convertire persino la madre mentre sta per morire, è quanto guida la storia, ispirata al libro di Daniele Scalise, Il caso Mortara (Mondadori) – la sceneggiatura è dello stesso regista e di Susanna Nicchiarelli con la collaborazione di Daniela Ceselli e Edoardo Albinati e la consulenza storica di Pina Totaro.

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Bellocchio a Cannes: «Grazie al mio cinema adesso mi sento libero, ma non assolto»UNA SCELTA quella del personaggio che in questa lettura non trova risposte al suo mistero e al paradigma del «convertito» – che arriva a essere più fervente di chi è cresciuto in quella fede quasi a voler dimostrare l’impegno in una continua e esibita professione di fede. È un perfetto risultato di brainwashing il giovane adulto che diventerà Edgardo, tremebondo e insieme sicuro dei suoi dogmi – da piccolo lo interpreta Enea Sala, da adulto Leonardo Maltese – o c’è qualcos’altro che sfugge alla comprensione almeno della laicità? Trattato come un trofeo da Pio IX, il pontefice che l’ha fatto rapire (Paolo Pierobon) per dichiarare la sua potenza di fronte dell’imminente fine dello stato pontificio – come ripete il suo cardinale, Filippo Timi – oppone a ogni richiesta di rilascio il suo secco e deciso «Non Possumus». Che riguarda il piccolo Mortara, battezzato e ribattezzato per meglio sottolineare quell’appartenenza alla Chiesa, la resistenza agli accordi con l’esercito sabaudo che conquisterà Roma, e ovviamente la propria potenza.

Chi sono poi quei Mortara che hanno osato sfidarlo denunciando il loro caso al resto del mondo tanto da farlo diventare emblematico della violenza pontificia contro gli ebrei? La stessa comunità ebraica romana è costretta a genuflettersi davanti al papa per evitare ritorsioni, per mantenere quei compromessi che aiutano l’equilibrio. Ma quale è il confine tra compromesso come strategia politica di sopravvivenza e accettazione supina del potere?

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«Esterno notte», la logica del potere fu la vera colpevoleBellocchio come in ognuno dei suoi film non si ferma alla storia personale, la ripercorre per trasformarla in qualcosa che interroga la società nei suoi fondamenti, religione e famiglia in una «nascita della nazione», l’Italia, nella quale questa idea di compromesso sembra essere fondamento. E se il padre di Edgardo Mortara (Fausto Russo Alesi) – uomo pacato e poco incline alle sfuriate, e come tale reputato pavido anche dalla moglie (Barbara Ronchi), che è madre impetuosa e pronta a ogni gesto per riprendersi l’amato figlio – rimane prima deluso dalla prudenza della comunità, ancor di più lo sarà nel processo contro l’inquisitore Feletti (Fabrizio Gifuni) dal tribunale laico che lo assolve perché aveva agito secondo le leggi allora vigenti. Come è possibile? È o no violenza prelevare qualcuno contro la sua volontà, specie un bambino così piccolo, imporgli un credo con la forza, renderlo nemico della sua stessa famiglia? Lui in quella giustizia ci credeva ma viene tradito.

Rapito – che uscirà in sala domani – inizia nel 1857, Edgardo Mortara ha sei anni, molti fratelli e sorelle, una vita all’apparenza felice, quando i gendarmi pontifici lo portano via, qualcuno lo ha battezzato (sembra la ragazza che serviva in casa) – prassi utilizzata per le conversioni forzate – e ora è cattolico. Le lacrime del piccolo e della madre non servono a nulla e neppure le suppliche del padre presso le autorità: Edgardo viene portato a Roma dove inizia la sua educazione cattolica. Ma nonostante la violenza impostagli non tornerà indietro quando lo stato pontificio cade, nel 1870, lui rimane lì, ormai quella è la sua vita.

È SU QUESTO bordo che si muove Bellocchio interrogando una dimensione individuale, immersa in quella storica, nella quale malgrado la distanza temporale risuona con forza il presente – di altri indottrinamenti, compromessi, atti mancati, ambiguità della politica rispetto a quelli che sono definiti «interessi superiori». Edgardo non sa nulla del cattolicesimo, è fragile, spaventato, di fronte ai suoi occhi di bambino si spalancano visioni ignote, un cristo crocifisso che gli appendono al collo d’oro e pesante a testimoniare il crimine commesso dal suo popolo, gli ebrei, che hanno mandato a morte il figlio di dio, torto che lui prova a rimettere a posto. O forse, almeno all’inizio, la sua è solo la speranza di poter tornare a casa se fa quello che gli dicono, come capita a tutti i «rapiti».

LA CHIESA diviene però un’ altra famiglia, mette in atto gli stessi meccanismi di persuasione, morbido come il velluto il papa fa di Edoardo il suo «favorito», lo prende sulle ginocchia, lo blandisce, lo fa sentire importante. È facile piegare un bambino ma poi adulto come accade che non abbia nessun risentimento verso chi ha reciso i suoi legami d’affetto, nessuna volontà, nessuna contraddizione? Anche se a volte sembra vacillare nei suoi slanci esagerati verso il papa/padrone che lasciano intuire una rabbia repressa, in una postura dolente, nella vaga percezione della manipolazione subita.

Marco Bellocchio
Nessuno di noi è ebreo e quindi abbiamo rischiato con questa storia, ma loro alla fine erano molto commossi, mi ha fatto piacereNel segno dell’opera e del melodramma, Bellocchio costruisce una narrazione limpida, che convocando le figure poetiche e politiche proprie del suo cinema si apre verso più direzioni, mantenendo fermo uno sguardo laico di chi crede nella storia e nel pensiero critico verso gli strumenti di cui l’ umano si dota per l’esercizio del controllo. Negli spazi chiusi contrapposti, che sono il collegio e la casa, prende forma quasi una geometria speculare, nella quale la spiritualità di una libera scelta è esclusa. È lì, come i suoi personaggi di film quali I pugni in tasca che Edgardo rimane intrappolato, facendosi segno di una vita che è quella dell’obbedienza (e della sopraffazione), rifiuto del conflitto che è parte invece di ogni tempo e di ogni realtà.