Europa

Quando Podemos

Pablo Iglesias, allora leader di Podemos, a una manifestazione del gennaio 2015 a Madrid, foto ApPablo Iglesias, allora leader di Podemos, a una manifestazione del gennaio 2015 a Madrid – foto Ap

Intervista Dagli indignati al governo con il Psoe e fino alla rottura con l’alleanza Sumar, i dieci anni del partito viola spagnolo visti da uno dei suoi fondatori, Juan Carlos Monedero

Pubblicato 10 mesi faEdizione del 17 gennaio 2024

Dieci anni fa esatti Podemos irruppe sulla scena politica spagnola, ne parliamo con Juan Carlos Monedero, professore di Scienze Politiche all’Università Complutense di Madrid e cofondatore del partito.

Perché nel 2014 un gruppo di intellettuali fonda un partito tre anni dopo il movimento degli Indignati?
Fu necessario un certo tempo per verificare che il 15-M aveva esaurito le sue possibilità. Il movimento degli Indignati ebbe successo perché non aveva memoria né struttura, non aveva leadership né programma. E questo servì per articolare un momento destituente e mettere insieme molte persone. Quando finì quell’impulso iniziale, quelle che erano state virtù si convertirono in problemi. E il 15-M venne meno perché non aveva memoria né struttura, non aveva leadership né programma. In quel frangente si unirono altri fattori che resero possibile articolare una proposta politica per rappresentare il senso del 15-M. C’era un attore politico, Pablo Iglesias, con molta forza nelle televisioni, c’era un gruppo di professori della Complutense che lavoravano insieme su differenti progetti e nella percezione popolare Psoe e Pp venivano assimilati.

Juan Carlos Monedero foto Ap
Juan Carlos Monedero foto Ap

Che bilancio ne trae?
Sul piano personale sono stati dieci anni di lotta contro il sistema, perché contro Podemos si è mobilitato l’apparato dello Stato. Nonostante ciò, ne è valsa la pena, ho avuto la fortuna di partecipare a un momento importante per la Spagna in relazione all’esaurimento del regime del ’78. In termini politici generali, Podemos ha rotto il tabù che a governare fossero solo il Psoe e il Pp, realizzando un governo di coalizione; ha costruito una plurinazionalità di sinistra, coinvolgendo Esquerra Republicana e Bildu; ha permesso di invertire la gestione tradizionale delle crisi, con uno scudo sociale a gestire quella del Covid; ha ottenuto leggi importanti sui diritti di cittadinanza e l’equità sociale.

In che momento Podemos passa dalla critica alla casta all’ideologia?
Il processo destituente è facile, basta cogliere il disincanto e canalizzarlo. Ma per mantenere una tensione sociale è necessario svilupparsi territorialmente. In Europa non si può costruire un partito in maniera populista, fare un partito significa cedere libertà, non mantenere la struttura verticale. E in un partito giovane come Podemos questo era un problema: era presente in televisione, nel governo, in parlamento ma non sul territorio. Nella fase populista dire “casta casta casta” è sufficiente. Ma articolare una risposta è più complicato, quando si è un partito non più fuori dal sistema si perde una parte dell’epica. Perciò Podemos entrò in una grande contraddizione, perché era un partito antisistema nel sistema. Questo si sarebbe potuto gestire solo stando allo stesso tempo in piazza e nel governo, ma senza un partito forte nel territorio chi costruisce la narrazione sono i media.

Al principio Podemos non si definisce di sinistra.
Podemos si ideologizza man mano che va declinando elettoralmente. C’è un momento importante nella sua evoluzione che rompe la strategia iniziale. Non è che non fossimo di sinistra, ma al principio non volevamo collocarci nell’asse destra-sinistra, perché con un partito di sinistra già esistente saremmo stati schiacciati sull’estrema sinistra. Tatticamente sarebbe stato un errore, perché non collocarci aiutava più gente ad appoggiarci. Ma quando nel Psoe fanno fuori Sánchez, lui imposta la sua campagna per le primarie dicendo “siamo la vera sinistra”. Ripropone cioé l’asse destra-sinistra e obbliga Podemos a posizionarsi. Tutti questi elementi furono sostituiti da un’ideologia più classica, perdendo quella trasversalità che permetteva a più persone di avvicinarsi. Questa evoluzione arriva fino a oggi, quando Podemos sembra un partito classico di sinistra, molto distante da quello che fu nel 2014.

Molta gente ha abbandonato Podemos, perché?
Perché i partiti giovani non hanno un’identità consolidata e quando si ha un dissidio con la direzione è più facile andarsene che rimanere. C’è in più un eccesso di personalismo e quindi il confronto non è solo ideologico ma anche personale rendendo difficile la convivenza.

Che ne pensa della rottura tra Podemos e Sumar?
La vivo come un fallimento di tutti noi. L’andata via di Pablo Iglesias dalla prima linea politica fu precipitata. Lasciò alla sua successora, Yolanda Díaz, un regalo avvelenato, a lei che era una leader non del partito. Tra l’altro c’era un’avversione personale tra lei e la direzione di Podemos, tutti ingredienti perché l’operazione non riuscisse bene. E quando Yolanda Díaz, per sommare tutti i frammenti che erano stati dentro Podemos e ne erano usciti, sceglie di pattuire con tutti questi gruppi e castigare Podemos, lo fa ipotizzando che Podemos sia morto. Ma Podemos non è morto e alla fine tutto salta per aria. Podemos non è morto e Sumar non ha tanta forza. E in questa lotta dentro la sinistra chi ne trae beneficio è il bipartitismo.

Come si recupera un’unita di azione?
La costruzione di schieramenti ampi richiede sforzo e dialogo. Yolanda Díaz ha riempito Sumar di gente che vuole solo la fine di Podemos. È anche per questo che Podemos ha lasciato Sumar. Non sono molto ottimista e fino a che non ci saranno le elezioni europee e ciascuno misurerà la propria forza, non vedo soluzione.

Che rimane dell’esperienza di Podemos?
Rimane una volontà disobbediente. Podemos è il partito che affronta il potere, c’è un elemento di disobbedienza allegra in Podemos che fu la sua forza. Podemos ora è un partito imbronciato che ha perso l’allegria. Il sistema capitalista è sottoposto a contraddizioni rispetto alle quali dobbiamo posizionarci. Questo sistema genera un dolore continuo. Ma le situazioni sono dinamiche. Nei miei discorsi concludo sempre dicendo che delle quattro cavità del nostro cuore, la prima va conservata per le istituzioni, battendoci per esse; la seconda deve essere in piazza, dove il potere misura il polso alla realtà politica; la terza è per la narrazione, per disporre di una lettura nel mondo delle fake per capire cosa succede. E la quarta va conservata per l’allegria, perché stiamo dalla parte corretta della storia.

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