Lydie Salvayre, le parole mescolate della memoria
Nel luglio del 1936, Montse ha 15 anni quando si reca dai Burgos per un posto di domestica. Si apre così il libro di Lydie Salvayre, Non piangere (Prehistorica Editore, pp. 256, euro 18; traduzione di Lorenza Di Lella e Francesca Scala; prefazione di Marcello Fois). Dona Sol legge un quotidiano che annuncia l’arrivo di un giovane generale che ha preso il comando per scongiurare la deriva democratica e socialista del paese. È la padrona di casa, madre cristiana e facha, ed è preoccupata che qualche facinoroso la espropri. Intanto ascolta il marito che definisce quella ragazzina, figlia di contadini, dall’aria «davvero umile». Montse sente di quella parola il significato reale dell’umiliazione di chi non ha niente. È uno dei tanti momenti apicali di un libro potente e senza sconti, scritto dieci anni fa (la prima edizione italiana è del 2016 per L’Asino d’oro, dal 2023 invece si occupa dei testi di Salvayre Prehistorica; in queste pagine abbiamo pubblicato il 16/09/23 una sua intervista, a cura di Francesca Maffioli, sul romanzo La conferenza).
Non piangere attraversa un capitolo cruciale della storia del Novecento di cui la scrittrice francese, in questi giorni ospite in Italia e oggi a Milano per Bookcity, riesce a tenere insieme il succedersi dei fatti e lo stato d’animo dei suoi personaggi.
Dopo 75 anni, Montse le racconta quei giorni di luglio del 1936. Quella ragazzina è sua madre. Come ha lavorato a questo libro profondo e singolare?
É l’onda emotiva sentita alla lettura dei Grandi cimiteri sotto la luna di Georges Bernanos ad avermi, letteralmente, lanciato nella scrittura di Non piangere. Tra tutti i romanzi scritti sulla guerra di Spagna (Claude Simon, Hemingway, Orwell…), è quello che denuncia con maggior violenza il comportamento della falange franchista e i suoi crimini, benedetti dalla Chiesa cattolica. Ma alla visione cupa, notturna e disperata di Bernanos, contrappongo la visione di mia madre degli stessi eventi: gioiosa, meravigliata e colma di promesse.
Mia madre, che fino ad allora aveva vissuto in un paese sperduto della Catalogna con una madre devota e un padre contadino, e che non sa nulla della vita vera, arriva nel 1936 a Barcellona dove soffia un vento libertario e dove la parola rivoluzione è sulla bocca di tutti. Vi vivrà uno dei momenti più felici, più intensi della sua vita. I caffè sono affollati e vi si parlano tutte le lingue, dato che sono il ritrovo dei giovani venuti da tutto il mondo ad arruolarsi nelle Brigate Internazionali per difendere la Repubblica. I ristoranti, gli hotel, le fabbriche, i mezzi di trasporto sono collettivizzati. E in città regna un’allegria, una fraternità, una speranza indimenticabili.
Una traiettoria del suo libro è appunto il riferimento costante a Georges Bernanos e al suo «I grandi cimiteri sotto la luna». Quanto ha contato questo confronto?
Bernanos in gioventù partecipò al movimento di estrema destra «Action Française», fu un ammiratore di Drumont e si dichiarò monarchico. All’inizio della guerra di Spagna, era quindi piuttosto favorevole alle idee della Falange. Ma risiedendo a Maiorca, durante la guerra di Spagna, fu testimone scandalizzato delle vessazioni perpetrate dalle truppe franchiste, e scrisse una requisitoria implacabile, ovvero I grandi cimiteri sotto la luna pubblicato nel 1938. Bernanos diceva: occorre accogliere la verità da qualsiasi parte provenga. È un consiglio che raccomando anch’io di seguire.
Montse è una creatura inaddomesticabile, apre per la prima volta la bocca e pronuncia tutto il suo senso dell’oltraggio. Lo fa in una lingua mescolata, definita «fragnol» che è corpo e terra, insorgente e anarchica. È una lingua di libertà?
Nel 1939, la guerra è ormai persa. E mia madre deve lasciare il suo paese con 500.000 altri spagnoli per sfuggire alla repressione franchista che fucila, esilia o imprigiona chi non si prostra davanti a Franco. Morta di fatica e imbiancata dalla polvere delle strade dopo giorni e giorni di marcia sotto le bombe, raggiunge la frontiera francese nel febbraio del ’39, viene «accolta» nel campo di concentramento di Argelès-sur-mer, e dopo infinite peripezie approda in un villaggio del Sud-Ovest. Mia madre che non sa nulla della cultura, dei costumi e della lingua francese si costruisce una lingua che è un miscuglio di francese e spagnolo, una lingua deformata, esitante, scorticata, piena di barbarismi, di solecismi, di storture grammaticali e svariate imprecisioni che io chiamo il Fragnol.
Da bambina, mi sono vergognata di quel Fragnol che designava mia madre come una straniera. Più tardi, vi avrei trovato ogni virtù e lo avrei definito come un idioma che attinge con profitto dal francese e dallo spagnolo, dove l’uno completa l’altro, rovescia l’altro, supplisce l’altro, ravviva l’altro, distrae l’altro, poetizza l’altro, svergogna l’altro, lo spagnolizza o lo fa traballare. E reciprocamente. Una lingua che si oppone a quella dominante ma ridendo, facendo le linguacce. Una lingua inventiva, che conferma la convinzione di Gadda: la lingua si rinnova sempre attraverso il popolo, non con l’accademismo culturale e letterario che tende a codificarla. Una lingua che introduce una parte di opacità in un mondo che l’universo comunicazionale vorrebbe rendere trasparente. Una lingua capace di reinventarsi ogni giorno, di sfidare le parole, di schiodarle dal loro legno, di liberarle dal senso di cui erano prigioniere. Una lingua che disfa le frasi fatte, che apre vie d’uscita e fa passare l’aria. Una lingua impura dunque, e che, come se nulla fosse, fa entrare qualcosa dell’Altro, dell’alterità, dello straniero, dell’altrimenti dire e, allo stesso tempo, dell’altrimenti pensare.
Quando si avvia con il fratello Josè verso la grande città lo fa per combattere contro l’oppressione. La rivoluzione è una passione del futuro?
Sì, mia madre e tanti altri giovani dell’epoca credono che, nell’avvenire, nessuno abdicherà alla propria sovranità per un’altra cosa, credono che i soldi non sanciranno mai più delle distinzioni fra gli esseri, credono che i franchisti non passeranno, No Pasaran! La loro voce è quella della meglio gioventù, avrebbe detto Pasolini. La voce dell’Utopia, che riecheggia ancora oggi grazie alla sua assenza.
Diversi sono i livelli di lettura e gli ordini del discorso. Per esempio, ci sono liste per punti che descrivono le fasi di epurazione franchista, inequivocabili nella loro violenza. E poi ci sono le definizioni, come nel caso di amore e poesia, di cui non tutte le parole si capiscono alla lettera. Sono linguaggi che possono coesistere grazie alla forza della letteratura?
Noi tutti usiamo svariate lingue: la lingua dell’intimità, la lingua dotta, la lingua politica, la lingua amministrativa, la lingua della collera, la lingua dell’ammirazione eccetera. Amo, in letteratura, ritrovare questa polifonia. Amo mescolare svariati registri di lingua. Amo che si abbraccino, ad esempio la lingua perfetta e rigorosa di Bernanos e la lingua così goffa di mia madre. Amo che si stringano l’un l’altro il francese detto letterario e il francese detto volgare, a condizione però che tra loro non ci siano gerarchie.
Lei indaga il sentimento della perdita, inteso come disincanto per una rivoluzione mancata ma anche come lutto per la morte delle persone amate. Come ha lavorato su questo tema?
Doppia perdita. Doppio lutto. Lutto, per gli esiliati come mia madre, dalla patria amata, lutto della lingua, lutto della cultura. E lutto della speranza nella rivoluzione che era cominciata nel ’36 proprio insieme alla guerra. Ma con questa ingiunzione: Non piangere! che è un verso rubato alla poetessa russa Marina Cvetaeva, la quale visse per un periodo in esilio in Francia. Non piangere. Non lamentarsi. Non porsi come vittima. Ma resistere. Restare in piedi. Andare avanti! E fare delle prove affrontate: la propria forza.
* Grazie della collaborazione a Gianmaria Finardi
SCHEDA. Incontri dell’autrice e il programma
Lydie Salvayre sarà oggi alla Hoepli di Milano, nel quadro di BookCity Milano, dove dialogherà con Ornella Ferrarini (alle 18) e domani si sposterà alla libreria Panisperna di Roma (alle 19), con Luca Bevilacqua. Domani, la serata inaugurale ufficiale di Bookcity affronterà alle ore 20, al Teatro Dal Verme, il tema «Guerra e Pace» con Edith Bruck e Claudio Magris. Già oggi, prima dell’apertura, al Memoriale della Shoah – Binario 21 (alle 19), si potrà seguire un dialogo di Gadi Luzzato Voghera con Gad Lerner, «Tra Storia e Memoria. Gli ebrei non sono tutti uguali. Smontare i miti per combattere l’antisemitismo».
Fra gli incontri prossimi di Bookcity, il 15 (dalle ore 18.30), presso il Castello Sforzesco, un focus sull’«importanza della memoria ai tempi dell’intelligenza artificiale» (con Ambrogio Borsani, Roberta Cesana, Stefano Lucchini, Ada Gigli Marchetti, Annalisa Rossi e Pierluigi Vercesi, saluti istituzionali di Piergaetano Marchetti). Il 17, invece, presso Bam, Biblioteca degli alberi, si parlerà di «Poetry and the Peace» (con Nicola Gardini, Vivian Lamarque, Vittorio Lingiardi, Cecilia Strada, Giuseppina Manin e Cristina Battocletti).
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